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In questi ultimi giorni, in corrispondenza d’un ricorrente modo di dire, secondo cui gli Italiani sono ogn’ora pronti a salire sul carro del vincitore, sarcastica “vulgata” della famosa frase di Leo Longanesi, per il quale “Gli Italiani sono sempre pronti a correre in soccorso dei vincitori”, pressoché tutti i mezzi di comunicazione, drogati anche dal successo del P.D.I alle elezioni europee, hanno fatto a gara a commemorare la morte d’un grande uomo qual è certamente stato Enrico Berlinguer.
Quella dei vecchi e nuovi comunisti (che ancora ci sarebbero, almeno secondo Berlusconi) verso il Partito, è più che una fede, una “liturgia”.
Non a caso, ben ricordo che, a La Dispoli, una famiglia d’antico Comunismo, i Marini, che ho frequentato, in un corridoio, piuttosto angusto e buio, teneva un altarino su cui, come un’icona, era appoggiato, il ritratto di Berlinguer, illuminato da due lumini elettrici dalla luce stentorea.
Credo di dire il vero, se affermo che certe manifestazioni di devozione non le abbia ricevute, a suo tempo, nemmeno Palmiro Togliatti, definito, per antonomasia, “Il Migliore”.
Un errore però c’è stato in queste generali celebrazioni, ovvero quello di definire “Padre del Compromesso Storico” Enrico Berlinguer, di cui conosco bene la vicenda politica, almeno a partire da quando fu eletto segretario della F.G.C.I.
E questo grazie a trascorsi personali e professionali vissuti in quel di Sassari, ove risiedeva la famiglia d’antica seminobiltà, massonica e di fede socialista, che, imparentata coi Cossiga, come questi ultimi ed alla stregua della maggior parte della borghesia più qualificata del capoluogo e del contado, soleva trascorrere le vacanze estive nell’esclusiva quanto “selvatica” località di Stintino, nel cui mare, sottocosta, possedeva il famoso isolotto de “la Pelosa”, che è servito strumentalmente alle “destre” per gabellare il “nostro” quale “latifondista”.
In verità, il Compromesso Storico di padri ne ha avuti soprattutto due. E questi corrispondono sostanzialmente ai nomi di Aldo Moro e di Ugo La Malfa.
E siccome di quanto lo sia stato Aldo Moro, che per il Compromesso Storico, ci ha rimesso la vita, tutto si sa, mentre di La Malfa non se ne parla e di Berlinguer se ne parla esagerando, riservandomi, in veste di ex facente funzioni di Segretario personale (durante l’ultimo periodo di vita del segretario ufficiale, Ferdinando Trombadore, prima e dopo essere tornato a Modica, ove morì d’un tumore, mi fu più volte chiesto di sotituirlo formalmente e, per ragioni personali, rifiutai le proposte) del “grande” Repubblicano, di scrivere, una prossima volta, sulle vicende che seguirono la morte dello statista democristiano, per il momento mi sembra doveroso puntualizare alcuni importanti passaggi politici relativi alla figura, imperitura, di Ugo La Malfa.
Triste destino quello di Ugo La Malfa, che, sapendo, come Cassandra, ben prevedere il futuro, morì inascoltato, mentre, via via, le sue “anticipazioni” si sono poi tutte immancabilmente attuate.
Basta a delinearne la figura di politico straordinario (perché il valore d’un politico sta soprattutto nella sua capacità d’anticipare gli eventi), dallo spessore incommensurabile, anche solo rammemorare a chi l’ha dimenticato, per ignavia, per sinecura, per invidia o, peggio, per mero spirito di parte, alcuni suoi “vaticini”, attraverso domande retoriche che, appunto perché retoriche, costituiscono, di fatto, delle asserzioni.
Premetto che, già prima degli anni ’60, La Malfa cogliendo in pieno il senso costituzionale dei Partiti al cospetto dello Stato, s’era invano battuto acciocché una legge precipuamente li istituzionalizzasse quali tramite imprescindibile ai fini dell’esercizio Democratico del potere da parte dei cittadini.
E se i partiti (in base a specifica normativa) fossero stati istituzionalizzati, ed i loro vertici equiparati a chi esercita un fondamentale esercizio pubblico, quale, ad esempio, un Deputato od un Senatore, negli ultimi tempi, il Capo dello Stato non sarebbe stato costretto, in occasione delle rituali consultazioni previste dalla Costituzione per la formazione del Governo, all’umiliazione di dover ricevere (esponendosi, per questo, alle ingiuste critiche di chi se ne frega della prassi costituzionale) sia Berlusconi che Grillo.
Appunto, Berlusconi e Grillo, che, se “interdetti”, quali sono, perché condannati con sentenze penali passate in giudicato, una volta istituzionalizzati i partiti, non avrebbero potuto né presiederli, né tantomeno rappresentarli.
Detto questo, al cospetto dell’inverosimile debito pubblico che, ormai da anni, ci affligge e ci taglieggia in termini di pesante falcidie di risorse altrimenti utilizzabili per la crescita del Paese (oggi pari a circa 2.200 miliardi di Euro) mi viene quindi da chiedere, quale vox clamantis in deserto, quanto segue.
Chi ricorda che La Malfa, già negli anni ’70, fu l’unico uomo politico a preconizzare che camminando sull’orlo d’un baratro di spesa pubblica fagocitante ogni risorsa del Paese, prima o poi saremmo cadutii dentro l’incombente “depressione”?
Vedansi, al riguardo, come primo esempio d’una presa di posizione responsabile e definitiva, le dimissioni da Presidente dell’autorevole Commissione Bilancio della Camera dei Deputati, dovute a leggi e leggine, di stampo demagogico e populista, che D.C., P.C.I. e P.S.I. facevano letteralmente a gara a proporre ed approvare – col risultato di moltiplicare il deficit statale – a beneficio di specifiche caste e categorie; dimissioni che portarono Pertini, in veste di Presidente della Camera, a scrivergli una lunga lettera con la quale, nel dirgli che era estremamente dispiaciuto per la decisione (di cui, comunque, condivideva in pieno le motivazioni) gli confessava pure d’aver letteralmente trascorso un’intera notte in bianco, piangendo di continuo (Pertini, assai sensibile, sia dal punto di vista politico, sia dal punto di vista umano, era solito manifestare ai colleghi che più stimava ed amava la sua aperta solidarietà).
Chi ricorda, oggi che, ancor più che ai tempi di “Mani pulite”, l’intreccio tra responsabilità politiche e responsabilità amministrative è diventato indissolubile, nonché indiscusso fomite di malaffare, che una delle prime battaglie del dopoguerra, relative alla moralizzazione del Paese, condotta in solitario, da un certo Ugo La Malfa, fu, appunto, quella persa nel tentativo di tener separati da un vallo incolmabile chi, da politico, aveva il compito di indicare, ai vari livelli, le strategie del Paese (al centro e nelle diverse emanazioni territoriali), e chi, in quanto funzionario istituzionalmente autonomo delle diverse amministrazioni o società pubbliche, queste strategie aveva il compito di attuare?
Chi ricorda la “Politica dei Redditi”, in cui, quasi si trattasse d’una parabola biblica, La Malfa, poneva ai politici italiani il quesito relativo a chi per primo dovesse aiutare un padre di fronte alla sorte di tre figli, rispettivamente lavoratore, lavoratore saltuario e disoccupato? Da cui sarebbe dovuta discendere una mediatata allocazione di risorse pubbliche atta a colmare il divario esistente tra i lavoratori italiani.
Chi ricorda che La Malfa fu l’unico ad opporsi all’istituzione, rimandata per anni, delle Regioni? (L’impennata traumatizzante del Debito pubblico – per rendersene conto, basta andarsi a vedere la sequenza dei Bilanci dello Stato – ha avuto inizio esattamente da quella data)
Ed una volta istituite le Regioni, cui poi s’è aggiunto lo sciagurato “scempio” della modifica costituzionale dell’articolo V, che ha consolidato, esaltandone l’autonomia, la “briga” spendereccia, chi ricorda che La Malfa, quale ultima soluzione per arrestare un flusso di spesa “a briglia sciolta”, s’appellò alla cancellazione delle Province? Province che, non ostante ormai tutti siano d’accordo per abolirle, continuano, imperterrite ad esistere ed a spendere.
Chi, infine (è cosa attualissima in cui si trova impelagato Scajola il Ministro che comprò casa senza sapere cosa costasse), chi ricorda che Ugo La Malfa scacciò dal Partito Repubblicano Italiano, l’allora eminentissimo e ricchissimo uomo politico calabrese, Matacena senior, autorevole personaggio dall’inusuale (a quei tempi) lunga capigliatura, nonché padrone, tra le altre cose, degli affollatissimi “Traghetti-Caronte”, che facevano la spola tra Reggio e Messina in concorrenza con quelli dello Stato, perché, in occasione della cosiddetta “Rivolta di Reggio”, ebbe l’ardire di tergiversare in merito alla condanna, inappellabile, che l’allora Segretario del P.R.I. pronunciò contro i cosiddetti “Boia chi molla!”, capeggiati da Ciccio Franco, di pura estrazione fascista (in seguito diventerà, infatti, Senatore del M.S.I.)?
Gian Piero Calchetti
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