Arriva il Natale, tempo di regali e di buoni sentimenti. Si va a concludere un altro anno che la Redazione ha trascorso con voi.
Si perchè, come in molti ci hanno voluto testimoniare, sappiamo di sottrarvi ogni giorno, con il nostro sito, qualche minuto della vostra quotidianità. Dunque ci sembra doveroso formulare a tutti i nostri lettori i migliori Auguri di Buone Feste.
Quest'anno vogliamo farlo attraverso un racconto di Palma Silvestri che farà rivivere a molti di voi la tipica e tutta paesana atmosfera natalizia gigliese.
Una frase in particolare ci ha colpito e l'abbiamo voluta sottolineare in grassetto: quando Palma racconta di aver provato a trasferire e ripetere "in continente" usanze e tradizioni isolane ... conclude scrivendo che non si può pretendere il salmastro, là dove la terra non vede il mare.
Da questa sacrosanta conclusione prende spunto il nostro augurio a tutti i nostri lettori, ma in particolare ai gigliesi originari ed adottivi che stanno fuori dall'isola. A loro l'augurio e l'invito a tornare al Giglio in qualsiasi momento lo possano fare per poter rivivere quelle tradizioni e sensazioni che solo l'inebriante sapore di salsedine sa rendere così uniche!
I FIOCCHI DI NEVE
“vedi bimba, la beccaccia è un animale di passo, arriva a stormo di notte, al massimo prima dell’alba; una chiama l’altra e siccome è facile preda, quando si trova in difficoltà e non vede terra si alza anche a otto- novemila metri; i piloti degli aeroplani ne sanno qualcosa. Si ferma al mattino, si riposa nella macchia e in questo intervallo trova noi cacciatori!” “ Riparte la sera, la rotta che segue è quella del sole, va verso ovest in Africa e arriva dalla Russia.” “Ma perché non sta sempre al Giglio? “ “perché è un animale di passo avvezzo al caldo. Tra un po’ è dicembre e qui arriverà il freddo.” Chi raccontava, col sorriso beato tra le vecchie rughe del volto era Pepparello Brizzi detto Stoppetta, perché come il mitico bandito maremmano Stoppa, quando sparava non sbagliava mai un colpo. Il contadino gigliese abile cacciatore sapeva tutto sulle beccacce e parlava volentieri fuori dalla sua cantina ma io bimbetta provavo pietà per quei volatili e in cuor mio speravo che non li prendessero.
In quegli anni cinquanta di fine novembre la vita quotidiana per i ragazzi del Castello aveva i ritmi dei piccoli doveri: andare a scuola, fare i servizi ai genitori, come prendere l’acqua alla fonte o comprare qualcosa alla bottega da segnare, che poi pagava mamma, indi giocare fino all’ora di cena a nascondino per i vicoli, il gioco era detto lelo, oppure a scivolo alla Porta, dove su una grossa cote alta, liscia e con la giusta pendenza (posta dove adesso è costruita la caserma dei carabinieri) ci lanciavamo a precipizio seduti sopra un pezzo di cartone. Un altro gioco molto in voga era quello delle pallette. Mio cugino Ulderigo, ingenuamente, quando perdeva la scorta di biglie si riempiva le tasche di palline naturali: la cacca secca delle capre. E di quelle intorno alla cote ve ne erano un’infinità!
Con l’arrivo del freddo ero contenta. Pensavo: “meno male, le beccacce sono salve”. Nella campagna le vigne rinsecchite rivelavano i salti dei timidi conigli e i voli bassi dei tordi, prede delle trappole e ambite in cucina. Il resto, silenzio, vento e aria pungente da lividi alle mani ed ai piedi.
La tramontana avvicinava confini lontanissimi oltre il mare: la Corsica mostrava i picchi bianchi di neve e l’Elba, Montecristo parevano a due passi.
Nell’abitazione dei miei genitori la cucina economica borbottando cuoceva, bolliva, asciugava e riscaldava. Il caminetto ce l’avevamo, alto, con due fornelli laterali per cucinare e una grandissima cappa da dove, io ne ero certa, passava la Befana. Per farlo tirare ed evitare il fumo bisognava tenere aperto uno spiraglio, con l’effetto caldo davanti e spalle gelate, o viceversa.
L’attesa del natale elettrizzava gli animi. Le donne si scambiavano ragguagli sulla ricetta del Panficato, il dolce tradizionale fatto con i fichi secchi; esse, avevano l’abitudine di parlarsi da un baschetto all’altro di modo che il loro tono di voce era sempre alto, quasi stridulo. Agli uomini spettava il compito di procurare il ramo di pino che sarebbe servito per fare l’albero.
Il presepio era una peculiarità di noi piccoli che a gruppi, senza sciarpa né cappellini ci avventuravamo, gote rosse e paniere in mano, nel bosco dell’Acqua Selvaggia sotto la Pagana alla ricerca del muschio.
Andavamo senza gli adulti, sicuri di quella familiarità che la campagna ci trasmetteva con il limite perentorio, deciso del mare.
La frenesia del Natale non stava quasi mai nell’attesa di costosi regali o pacchetti particolari ma nell’organizzare tra amici la veglia giocando a tombola per andare poi tutti insieme alla messa di mezzanotte a cantare tu scendi dalle stelle e scambiarci gli auguri con tutti i paesani, vecchi e giovani, sul monte della chiesa.
Ci aspettavamo pazienti, col nostro vestito migliore ed eccitati. I gruppi erano grandi: salivano pure i ragazzi del Porto e la casa si riempiva di odori e umori nuovi che sapevano di timidezza, simpatia, imbarazzo ma la calata portolana rompeva il ghiaccio, ridevamo e dopo era tutto un chiacchiericcio. Forse l’indomani avremmo avuto scarpe nuove ai piedi ma più forte era l’emozione di un abbraccio per qualche caro parente arrivato dal continente.
La zuppiera si riempiva di frutta delle grandi occasioni ( datteri, banane, mandarini) e finalmente sulla tavola imbandita sarebbe arrivato il corollo; dolce fatto con le uova sbattute e i semi di finocchio da inzuppare nella cioccolata calda.
Natali che davano per scontato i sentimenti, l’amicizia ma così perduti nel tempo da sembrare oggi antichi persino a me, che li ho vissuti come momenti unici e cercato di ripeterli in altre latitudini, altre case ... ma non si può pretendere il salmastro, là dove la terra non vede il mare.
Il giorno di Natale fuori faceva freddo come nel resto della casa lasciata al suo clima naturale ma nella grande cucina, seduti intorno al tavolo e uniti dalle risate nel cogliere il carattere di certi simpatici personaggi di paese, stavamo bene. Io mettevo la letterina sotto il piatto del mio babbo e sorridevo pensando alle beccacce lontane, accovacciate in qualche cespuglio africano. Con il bicchiere alzato gli adulti iniziavano i brindisi e gli auguri. AUGURI per i propri sogni e le belle speranze, premesse per futuri possibili, illuminanti come i nostri tramonti. E tutto avveniva all’ombra di un grosso ramo di pino che era il nostro albero di natale, decorato con palline colorate, lucine rosse e tanti, tanti fiocchi di neve fatti con il cotone idrofilo.
Palma Silvestri (della Barroccia)
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