Il forno del Bongiovanni
A seguito dei precedenti articoli sulla possibile origine del significato dei nomi di luoghi dell'isola del Giglio (“Le Scole”, gli “Aglialochi”, "Porto Arturo", ecc.), veniamo, con il presente intervento a tentare una possibile spiegazione di un altro singolare toponimo isolano, situato lungo la scogliera nord-ovest dell'isola, fra la spiaggia del Campese e la punta del Fenaio, dopo la località “Sparavieri, dove c'è un rientranza nella costa granitica con una specie di grotta chiamata dai Gigliesi “Il forno del Bongiovanni”. Tale luogo è ben noto agli isolani per la particolare caratteristica di essere frequentato dai piccioni marini (columba livia), che li si abbeverano con dell'acqua che scorre da una sovrastante sorgente.
Non è mai stato possibile trovare una spiegazione di questo ennesimo e strano toponimo (del resto molto antico, dato che era già chiaramente indicato, precisamente come “Forno del Buon Giovanni”, in una carta disegnata dal governatore del Giglio nel 1656, Serafino Burali, provetto cartografo) fino a quando il professor Gualtiero Della Monaca ha pubblicato, sul numero dell'aprile scorso della rivista “Le Antiche Dogane, l'articolo “I Reali Presidi di Toscana nei disegni del cavalier Ignazio Fabroni”.
Leggiamo infatti in questo articolo, nella parte dedicata alla nascita di Porto Santo Stefano:
“Gli anni testimoniati dal Fabroni sono quelli in cui nel porto settentrionale dell'Argentario era in corso la lenta ripresa della vita, che vide come principali protagonisti gli artiglieri di stanza nella Fortezza e i torrieri in servizio nei manufatti atti all'avvistamento e alla segnalazione, dislocati lungo la costa nord-occidentale dell'Argentario.
Dagli esami dei registri conservati all'Archivio Parrocchiale di Orbetello è stato possibile identificare alcuni di questi “pionieri” insieme alle loro famiglie:
L'alfiere Gaetano Frezza che il 1° Ottobre 1679 sposò Teresa Angela Bausani, figlia di Gio. Batta Bausani di Savona e di Giovanna Bichi dell'Isola del Giglio. Il soldato Giovanni Terramoccia, originario di Jesi in Sardegna, il quale ebbe tre mogli: Bartolomea Arienti, Teresa Biondi e Fiore Aldi, tutte native dell'Isola del Giglio. Giovanni Antonio Busonero originario di Nuoro nel Regno di Sardegna, sposatosi il 30 Giugno 1693 con Prassede Magroni di Longone, il quale fu torriere prima nella Torre di Lividonia, poi in quella di Cala Grande. Andrea Sierra, torriere della Torre della Punta, ovvero la Torre di Lividonia, il quale sposò il 20 Dicembre del 1695, Apollonia Terramoccia, figlia di Giovanni Terramoccia. Il soldato spagnolo Giovanni Carta, torriere della Torre di Cala Moresca sulla costa occidentale dell'Argentario, il quale sposò una certa Lucrezia di Buon Giovanni dell'Isola del Giglio. Angelo Pira, anche lui nativo della Sardegna, addetto alla Torre di Cala Ficaia, ovvero la Torre di Cala Piccola, sposatosi con Agata Magroni. Bernardino Bausani, originario di Savona, di stanza nella Torre del Calvello, il quale ebbe due mogli, Cecilia Biondi e Margherita Mai, entrambe gigliesi. Andrea Cardinali di Castelnuovo di Lucca, il quale il 1° Marzo del 1688 sposò Lucrezia Magroni di Longone. Antonio del Campo, soldato della compagnia del governatore, il quale il 20 Settembre 1679 sposò Maria Magnana dell'Isola del Giglio …..”.
Questo stralcio dell'articolo di Gualtiero della Monaca, volutamente lungo per sottolineare il dato interessante e divertente che l'attuale popolazione di P.S. Stefano discende quasi interamente da antenate gigliesi, ci ha fornito una inaspettata e utile indicazione per continuare la nostra ricerca sull'origine dei toponimi isolani. Infatti il riferimento, del tutto inedito, a una tale “Lucrezia del Buon Giovanni dell'Isola del Giglio” ha consentito di ipotizzare che il toponimo “Forno del Bongiovanni” fosse ragionevolmente riconducibile al padre della suddetta.
Per convalidare tale ipotesi si poteva solo verificare alcune circostanze, ossia che le vigne di quel tratto di costa fossero all'epoca di proprietà del padre di Lucrezia (di cui per altro non si conosceva il cognome ma solo che era detto “Buon Giovanni”) e che i medesimi terreni, nell'arco di tutto questo tempo, non fossero mai stati venduti. Incoraggiava la ricerca la rarità del nome “Lucrezia” nelle antiche famiglie gigliesi.
Nella ricerca, particolarmente utile si è rilevata la collaborazione di Giuseppe Ulivi, ex sindaco del Giglio, che durante l'ultima guerra era “sfollato” con la famiglia in quella zona, sistemati alla meglio in una costruzione precaria, realizzata, nell'occasione, in quei terreni di cui erano proprietari e che erano stati ereditati dal nonno materno, Stefani Giuseppe detto “il Peccia” (fra l'altro storico scalpellino gigliese che ha lasciato esempi della sua abilità nel lavorare il granito isolano nel monumento ai Caduti di Piazza Gloriosa a Giglio Castello e in varie altre opere).
Continuando a ritroso la ricerca degli avi di Giuseppe Stefani, che era nato nel 1874, si trova la mamma Tievoli Luisa nata nel 1837, figlia di Tievoli Pietro nato nel 1814, figlio di Bancalà Annunziata nata nel 1792 da Bancalà Olimpio del 1756, a sua volta figlio di Bancalà Pietro del 1718. Quest'ultimo era figlio di CONFORTI TERESA, sorella di LUCREZIA che, assieme a ROSA erano figlie di CONFORTI GIOVANNI, originario di Chiavari. Ovviamente, nei registri gigliesi, non si possono trovare tracce dei discendenti di Lucrezia, che avendo sposato il soldato spagnolo Giovanni Carta, era rimasta all'Argentario.
Dall'analisi congiunta dei registri gigliesi e di quelli dell'Archivio dell'Abbazia delle Tre Fontane di Orbetello appare quindi ragionevolmente dimostrata la tesi di partenza, per cui il toponimo gigliese “Forno del Bongiovanni” sia da far risalire al padre della Lucrezia gigliese, che era soprannominato “Buon Giovanni” (probabilmente per caratteristiche caratteriali), che si chiamava Giovanni Conforti, che era originario di Chiavari e che possedeva, all'epoca, un vasto appezzamento di vigne in una zona dell'isola che finì per prendere il suo nome.
Alvino Pini e Armando Schiaffino
Grazie Andrea. Avevamo sentito qualcuno dire che il significato era 'Cala Bella' e non riuscivamo a spiegarci da dove arrivasse quel 'bella'. Probabilmente, come ha scrito Lei, proprio perchè è bella, sopra ma soprattutto sott'acqua. In realtà, sott'acqua è, mio umile parere, uno dei posti più belli del Giglio. Grazie Cordialità
Spero innanzitutto che gli operatori di Giglionews non abbiano voluto vedere una critica nei loro confronti con la mia precisazione sulla foto della cala del Bongiovanni. Mi è venuto del tutto spontaneo, conoscendo bene quei luoghi, senza cattiveria. La parola FORNO. Accettabile la spiegazione del signor Calchetti: forno quale storpiatura della parola foro. Ad Alina vorrei dire che le indicazioni del suo babbo si assomigliano molto a ciò che il mio babbo, Togo di Calzettone, mi spiegava al riguardo, distinguendo tra Fornetto, una rientranza impervia e angusta tra scogli alti, tuttavia accessibile via terra, e Forno, una specie di grotta nella scogliera inaccessibile da terra, somigliante alla bocca di un forno. I Fornetti erano i posti adatti per promeggiare nella certezza di pescare murene di grosso taglio e non le stringole, murene al massimo sul mezzo chilo. Claudia pone un quesito non facile da risolvere o forse troppo facile. Se si vuole che Cala Cupa abbia una derivazione latina o greca, beh!, Claudia hai un bel lavoro davanti a te. Il vocabolo cala-ae in latino significa ceppo di legno da ardere, mentre cupa-ae (cúpe in greco) può significare: manovella di mulino, frantoio, bótte, fusto, barile, taverniera, coppa, tazza e sarcofago. Un po‘ complicato, con questo guazzabuglio, trovare e dare una spiegazione alla tua richiesta. È meglio quindi rifarsi al significato, forse troppo semplicistico ma valido, dei vocaboli italiani cala e cupa: una cala profonda e quindi scura e misteriosa. Chi in apnea o con le bombole ha visitato quel luogo, meno battuto di altri posti dai sub, può confermare la bellezza della cala e dintorni, dovuta a quei tre aggettivi e so di molti che ne sono rimasti affascinati. Un saluto. Andrea di Togo.
Mio babbo (sempre lui, il Mazzolo) mi indicava come "forni" anche le grotte poco prima del Capelrosso, venendo dal Porto. Mi sono fatta l'idea che il nome riguardasse non il calore del forno, ma l'aspetto della costa che, in quei punti, somiglia alla bocca di un forno. Dunque, trovo assai persuasiva la spiegazione data dai ricercatori del Forno di Buon Giovanni.
Davvero interessanti queste pagine, soprattutto per chi non è gigliese ma vuole saperne di più sulle varie località dell'Isola. E a tal proposito 'lancio' una richiesta..... Qualcuno sa spiegarmi il significato della notà località denominata Cala Cupa? Grazie ai Sigg.ri Pini e Schiaffino per questi scritti. Claudia
In riferimento al commento di Andrea Arienti ci piaceva precisare che la foto, tratta dal nostro archivio non avendone una specifica, era soltanto per dare un'idea indicativa della zona di cui si stava parlando. A questo proposito rivolgiamo un invito ai nostri lettori che ne fossero in possesso ad inviarci una foto specifica di cala del Bongiovanni.
MODESTE “RIFLESSIONI” SU “FORNO DEL BUON GIOVANNI” Dopo aver letto, con attenzione, il “saggio” di ricerca etimologica e localisticamente archeologica, relativo al “Forno del Buon Giovanni”, mi sono venute in mente delle ipotesi che potrebbero dare spiegazione al, com’è stato scritto, “mistero” di cosa significasse od intendesse significare il forno. Prima, però mi sia consentita una premessa. Il significato intrinseco delle origini del linguaggio, ovvero delle parole che, normalmente usiamo, non sempre è rintracciabile in una radice corrispondente. Bastino, al riguardo, anche solo due espressioni latine: canis a non canendo (cane perché non canta); lucus a non lucendo (bosco perché ostacola la luce), riferite, nel corso dei secoli, come esempi di “antifrasi”, ovvero di parole derivanti da altre parole di significato contrario, da scrittori e pensatori molteplici, quali, ad esempio, per la prima, da Varrone, Livio e Sant’Isidoro di Siviglia tra gli altri, e, per la seconda, da Quintiliano e Virgilio, nonché, in tempi recenti, addirittura da Moravia, per descrivere l’impenetrabilità pressoché assoluta d’una foresta africana. Alla fine, insomma, ogni cosa “chiamata” tale rimane anche se non è possibile rintracciarne, attraverso un processo di semantica deduttiva, una radice logica e conforme al significato della “fonte” da cui sembra scaturire. Ciò detto, senza tanto sofisticare in proposito (alla fine, trovare o non trovare una spiegazione, al di là d’un arricchimento nozionistico-culturale, conta poco), a me, “lavorando” un po’ di fantasia e senza soffermarmi su chi fosse il “Buon Giovanni” citato, perché, come in tantissimi altri casi, i Bongiovanni derivano certamente da uno o più individui che, avendo in sorte di chiamarsi Giovanni, erano pure buoni, in chiave di toponomastica, mi viene da collegare il cosiddetto “Forno di Bongiovanni”, ad un vero e proprio forno di campagna, adesso del tutto scomparso, in cui il “ buonuomo”, che, magari, abitava nelle vicinanze, cuoceva il pane per la famiglia, ovvero, calce o mattoni, quali supporto ad una sua attività muratoriale. Così come mi viene da pensare, visto che il “quesito” nasce da una specie di modesto “antro” marino, identificato, appunto, come “Forno del Buon Giovanni”, che, in origine, si chiamasse, invece, “Foro del Buon Giovanni” (sono più che sicuro che, un giorno, finirà per chiamarsi “Forno dei Bongiovanni”). Foro che, attraverso una semplice “storpiatura” di linguaggio, è diventato “Forno”, senza che, nei paraggi, esistesse alcun manufatto addetto a qualsivoglia tipo di cottura. A meno che l’area in questione (che non conosco) non sia costituita da una depressione geologica di tipo tettonico, che, impedendo, di fatto, l’afflusso del vento (nella fattispecie il “ristoro” della brezze marine), faccia del luogo, specie in Estate, un punto di concentrazione di calore talmente opprimente da indurre i Gigliesi a chiamarlo “Forno” in senso figurativo.
Un grazie ad Armando e Alvino per questa interessante e meticolosa ricerca. Un piccolo neo: la foto non ritrae il Forno del Bongiovanni, ma il Picche, laddove ancoravano i barconi o le zattere per caricare stipiti, gradini, lastre da pavimentazione e altro, manufatti della cava di granito soprastante la cala. Un caro saluto. Andrea di Togo