Il riscaldamento del clima prossimo venturo avrà nel Mediterraneo uno dei suoi maggiori punti di crisi e rischia di travolgere per prime le isole minori esposte ancor più del Continente a mutamenti repentini e con la distruzione di flora e fauna endemiche e di un'economia fragile. Non siamo ai livelli del Pacifico, dove interi stati insulari ammaineranno le loro bandiere multicolori davanti al mare che inghiotte gli atolli, ma già oggi nelle isole minori mediterranee l'avanguardia strisciante dei cambiamenti è visibile a terra e a mare, e mettere in crisi risorse idriche ed equilibri recentemente consolidati.
La Commissione Europea ci dice che le prime attività economiche a risentire del riscaldamento globale sono/saranno turismo ed agricoltura, quest'ultima nelle isole minori ormai svolge un ruolo marginale ma essenziale per la biodiversità, mentre la prima è l'unica vera monoeconomia, che da sola sostiene tutte le altre, compresa quella del cemento che ne erode voracemente qualità e risorse. Se per l'Italia il turismo rappresenta il 12% del Pil Italiano, per Arcipelago Toscano, Ponziane, Ischia e Capri, Eolie, Egadi, Pantelleria, Pelagie, Tremiti e le piccole isole sarde è ormai praticamente il 100%.
Lo scenario presentato a Brussellex è quello di coste mediterranee velocemente arroventate fino a livelli libici, mentre le nostre gradevoli temperature estive e la nostra mite primavera si sposteranno verso il mare del Nord e l'Atlantico portandosi dietro animali, piante, coltivazioni, il turismo ed i 130 miliardi di euro della sua economia, senza contare l'innalzamento del mare che si mangerebbe spiagge, ombrelloni e porti e quel che rimane delle piane costiere e delle zone umide isolane, lasciandoci in cambio, dice il rapporto Ue, «siccità, riduzione della fertilità del suolo, incendi e altri fattori dovuti al cambiamento di clima». Cambierà l'ambiente e le avvisaglie della tropicalizzazione del mare, che già oggi vede l'arrivo di animali di mari più caldi come il pesce Serra, preceduti, tra il divertito disinteresse dei più, da donzelle pavonine, Caulerpa Taxifolia e da una miriade di invertebrati, diventeranno anche desertificazione della terra. E tutto questo sulle isole minori rischia di passare come un caldo e inarrestato soffio che sperimenta per primo da noi quel che altrove procederà con minore velocità, favorito da cemento, scarse risorse idriche, politiche ambientali a volte inesistenti e senza trovare a temperarlo montagne da risalire o rimasugli di ghiacciai. A rischio sono specie vegetali già rarissime come il fiordaliso di Capraia o la Viola dell'Elba, o le Osmunde regalis, le più grandi felci italiane, che l'ultima glaciazione, ritirandosi, ha depositato come naufraghe nelle più ombrose e nascoste valli elbane, ma anche tutti gli anfibi rari e preziosi come il Discoglosso sardo o la Raganella Tirrenica che miracolosamente riescono ancora a sopravvivere in pozze e corsi d'acqua temporanei.
Intanto in questi miti inverni il mare si anima delle picchiate acrobatiche delle Sule bassane in vacanza dal nord Atlantico, e il cielo di gruppi di uccelli migratori che si fermano in queste zattere calde senza più pensare all'Africa lontana e faticosa.
I segni ed i vaticini ci sono, ma da questi scogli diventati fortunati per un capriccio dell'economia, non riusciamo più a leggerli come prima nel cielo e nelle onde. Forse con gli occhi velati dalla foschia che sale dal mare più caldo, forse distratti dal canto d'amore dei merli che stupisce il nostro inverno, non riusciamo a vedere e sentire il pericolo che avanza veloce, il ticchettio velocissimo del poco tempo che manca per correre ai ripari, che come un tarlo si mangerà il tavolo imbandito del turismo e il nostro benessere.
Distogliamo lo sguardo e il cervello, proponiamo nuove schiere di seconde, terze e quarte case che spopolate dei nostri nipoti saranno finestre vuote sul deserto, nuovi porti che tra pochi anni affogheranno nel mare che sale, nuove privatizzazioni di arenili in spiagge destinate ad essere mangiate dalle onde. Quasi non riuscissimo a fermare l'abbrivio di una corsa ormai lanciata verso una ripida discesa, come nuovi e fatalisti mammut del cemento.
Eppure noi, quelli che annusano vento e segni e leggono gli aridi dati che scienziati preoccupati suggeriscono all'orecchio dei burocrati europei, non chiediamo di fermarsi, chiediamo di muoversi, di cambiare per quanto ce lo consente il poco tempo che rimane, di consegnare ai nostri figli una speranza di poter vivere ancora su queste isole così belle, su queste terre che, se ci lasciano andare, ci riattirano come sirene salmastre. Nel progetto "Itaca" Legambiente pensa alle isole minori come laboratorio avanzato per la sostenibilità: territori finiti e con risorse limitate, a come le isole potrebbero diventare, grazie ad un ambiente e ad una biodiversità ancora in buono stato di conservazione e di un'antropizzazione in molti casi ancora sostenibile, a farne la frontiera più sensibile delle nuove politiche territoriali ed ambientali dell'area mediterranea, spostando l'attenzione dallo sviluppo quantitativo, che ormai pare aver raggiunto il massimo della capacità di carico in tutte le isole, a quello qualitativo, con interventi di "infrastrutturazione ambientale" e l'introduzione diffusa dei criteri e dei principi dello sviluppo ecosostenibile. Passando così dalla rendita all'innovazione, opponendo non il petto ma la mente e la volontà di salvezza al caldo ed alla sabbia che risalgono rapidamente il Mediterraneo.
Si allega il progetto "Itaca"
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