Ricostruzione geometrica di un’anfora punico ebusitana proveniente da un relitto scoperto a Isola del Giglio. Toscana, Italia.
di Mario Brandaglia
In anteprima viene illustrato un sunto di un lavoro di archeologia sperimentale riguardante la ricomposizione di un probabile vaso antico. L’autore ha utilizzato come supporto compositivo soltanto immagini fotografiche e disegni tratti dai reperti originali prima della consegna alle autorità competenti. Lo studio si è svolto in un laboratorio lontano dalla città dove giacciono i frammenti archeologici, sottoponendo ogni singola immagine o schizzo grafico, all’analisi dei loro margini di frattura, a cui ha fatto seguito un riadattamento compositivo su una piattaforma bidimensionale, dalla quale è stata rilevata la sorprendente forma dell’anfora. Per comprendere meglio il risultato di questo lavoro credo sia opportuno andare un po’ indietro nel tempo, e raccontare come si sono svolti i preliminari della vicenda.
I reperti si trovano da circa 36 anni presso il deposito della Soprintendenza di Grosseto e meritano una descrizione più attenta perché rappresentano una tappa importante della storia dell’archeologia subacquea della nostra isola, che mi vedono come un testimone diretto e protagonista tra i pochi rimasti ancora in vita. Sono stato per molti decenni l’unico fotografo subacqueo nato sull’isola ed uno dei primi sommozzatori e ricercatore archeologico, che ha accumulato una serie di scoperte di importanti relitti tra cui ricordo quello di Giglio Porto e quello arcaico della Calbugina: altri relitti già annotati nei miei appunti giacciono ancora sotto una coltre la sabbia sui nostri fondali e evito di pubblicarli per garantirne la loro conservazione. A questo quadro fa da cornice una ricchissima documentazione fotografica ambientale, naturalistica, di biologia e di archeologia subacquea del tutto inedita, custodita nel mio archivio fotografico.
Torniamo quindi in quel lontano giorno del 14 ottobre 1982, quando consegnai alla stazione della Guardia di Finanza di Giglio Porto, previo accordo con la Soprintendenza Archeologica della Toscana, una certa quantità di materiali archeologici recuperati nel corso di immersioni subacquee e di prospezioni superficiali attuate nell’ambito delle mie ricerche, durante il decennio 1970-1980. Dalla fotocopia del verbale di consegna controfirmato dal Comandante brigadiere Antonio Maddalena, leggo il puntiglioso elenco degli oggetti fittili e delle loro località di rinvenimento, e anche se non era la prima volta che le Istituzioni mi vedevano impegnato nella consegna di simili materiali, provo ancora come allora, una certa emozione per quell’azione. In alcune casse vi erano raccolti i resti di anfore, in altre avevo collocato alcune barre di piombo contorte, chiodi in bronzo e due segmenti in legno, forse di pino, riferibili con probabilità ai resti di uno scalmotto dell’ordinata del vascello naufragato a circa metri 60 di profondità, che in base a una prima e sommaria valutazione sembrava essere affondato tra il III e II sec a.C. Alcuni anni dopo, colto da una certa forma di ottimismo, denunziai alla Soprintendenza la scoperta di quel relitto allegando una mappa del sito subacqueo con la descrizione del contesto del rinvenimento, nella speranza di collaborare in tempi brevi al suo recupero. Il tempo è trascorso velocemente modellando gli eventi in senso opposto a come li avevo immaginati: non vi è stato alcun recupero e nessuno si è mai occupato di progettare immersioni di prospezione o di scavo subacqueo per far riemergere quel prezioso carico. Da molti anni non ho più fatto immersioni su quel punto del fondale e allo stato attuale non posso dire con certezza se a quella profondità sia tutto rimasto come l’avevo lasciato o se vi sia ancora qualche cosa da salvare, ed è successo quanto occorso per l’altro relitto arcaico della Calbugina: abbandonato nelle mani dei clandestini!
Ritornando ai materiali consegnati, devo dire tuttavia, che durante una mia recente visita presso il deposito di Grosseto, non ho potuto rivivere quello stesso sentimento di orgoglio che vibrò nel mio cuore nel lontano ottobre 1984, anzi confesso di aver provato amarezza nel vederli dimenticati non soltanto materialmente, ma anche culturalmente, poiché sfogliando le pubblicazioni archeologiche e di archeologia subacquea degli ultimi 40 anni non ne ho trovato menzione o traccia. I resti in legno ormai irriconoscibili per forma e colore, si presentano contorti e prosciugati tanto da renderne impossibile la ricostruzione delle linee originali. Fortunatamente li fotografai insieme agli altri reperti prima della consegna, e ne tracciai un rilievo in scala con sezione e prospetti, annotando anche il disegno e le misure dei cavicchi con i rispettivi punti di cucitura, che ancora conservo insieme alla mappa batimetrica e alla documentazione grafica e fotografica del relitto.
[caption id="attachment_55249" align="alignleft" width="300"] Fig. 1. Isola del Giglio. Ricostruzione geometrica dell’anfora.[/caption]Il progetto di ricostruzione tipologica attuato presso il mio atelier di San Donnino, Firenze, si è concluso con un disegno sorprendente, in quanto ha messo in evidenza la inaspettata forma di un’anfora a noi poco nota e sconosciuta nell’area marittima del Mare Tirreno, in quanto si contano soltanto pochi frammenti rinvenuti recentemente negli scavi di Pompei: quella di un anfora punico ebusitana; roba che in altri tempi avrebbe suscitato l’attenzione scientifica dei nostri Manacorda o Lamboglia, per non parlare dei vari Mañá, Ramon, Gómez, Bellard, Dies, Marì e altri studiosi, i quali non si sarebbero lasciati sfuggire quest’occasione per studiarli e pubblicarli. La nostra anfora venne foggiata intorno alla fine del III sec. a.C. nelle Baleari con una forma studiata appositamente per il trasporto dell’olio estratto da olive prodotte in quelle isole (Fig. 1). La sua forma geometrica è rappresentata da due coni contrapposti e da un forte sviluppo verticale del collo a cui sono saldate le classiche anse puniche a sezione circolare; evidenzia un’altezza ragguardevole di circa cm 115 che ne fa una delle anfore più alte da noi conosciute, mentre la superficie è decorata a crudo con scanalature orizzontali parallele che la ricoprono interamente, conferendole eleganza e sottolineandone la forma raffinata e slanciata. L’utilizzo di questo tipo di contenitore è stato attestato dalla fine del III al I sec. a.C. nel Mediterraneo occidentale, attraverso contatti commerciali tra le colonie puniche dell’isola Ebusus e gli scali delle coste spagnole, di quelli sarde e della Corsica. Come già accennato la sua presenza nelle acque del Giglio rappresenta una novità assoluta e apre nuove prospettive sui traffici di piccolo cabotaggio e sui contatti commerciali tra i porti dell’Italia centrale (Etruria e Lazio) con gli empori punici di Ibiza e delle isole Baleari. Il fatto che nell’area del relitto fu osservata la presenza di un lotto di embrici concrezionati e di difficile asportazione, accompagnati da alcuni colli di anfore repubblicane (probabilmente Dressell A) ci indurrebbe a ipotizzare che il vascello sia naufragato in un viaggio di ritorno da un porto di Caere, già sotto controllo romano, dove avrebbe scaricato il prezioso carico di olio e ricaricato materiale vario da trasportare probabilmente in uno o più scali intermedi della costa toscana o corsa, prima di proseguire la sua navigazione verso il proprio porto di provenienza.
Agosto 2020
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