Nella chiesa arcipretale di Giglio Castello dedicata a San Pietro apostolo, i sei altari laterali vengono da sempre tacitamente e tradizionalmente curati da determinate famiglie del paese, che si tramandano tale impegno di generazione in generazione. L'altare dedicato a San Mamiliano è sempre stato accudito dalla famiglia Mai, antico casato gigliese praticamente estinto (almeno fra i residenti isolani e comunque come cognome) e che annoverava, fra i suoi antichi rappresentanti, non solo agricoltori ed ecclesiastici ma anche numerosi e noti padroni di barche.
Sull'altare di San Mamiliano esisteva, da tempo immemorabile e fino agli anni '70 del secolo scorso, una piccola statua di marmo di una Madonna con Bambino detta “Madonna delle Grazie”. Secondo la tradizione, furono proprio alcuni membri della famiglia Mai che, tornando da pescare, la trovarono “stracquata”, cioè portata dalle onde del mare vicino alla riva, in evidente contrasto a quanto si fosse potuto ragionevolmente pensare visto che, per le leggi della fisica, una statua di marmo avrebbe dovuto affondare. Nel periodo che fu parroco di Giglio Castello Don Bruno Usai (dal 1969 al '76) un giorno due forestieri furono notati in chiesa a fotografare la statua. Dopo qualche giorno questa sparì e non fu più rintracciata.
Un nuovo interesse per tale vicenda è tornato in tempi recenti, allorché qualcuno notò una particolare similitudine della leggenda della Madonna del Giglio con quella della Madonna di Trapani, conservata, quest'ultima, nella Basilica-Santuario che domina quella città e di cui è patrona. Da un volumetto sull'argomento scritto dal padre carmelitano Gabriele Monaco nel 1950 apprendiamo: “Alla fine del XIII° secolo alcuni cavalieri Templari, fuggiti, dopo una furibonda battaglia coi saraceni, a Tolemaide, furono costretti ad allontanarsi anche di là, portando seco una bellissima statua della Madre di Dio, che era stata venerata nella loro commenda di Terra Santa. La nave, diretta con il prezioso carico alla volta di Pisa,luogo d'origine dei cavalieri, fu colpita da una violenta tempesta. I poveri naviganti, spaventati dall'orrore della imminente morte, fecero voto a questa soavissima Signora, di cui portavano seco l'effige, di lasciarla nella prima città cristiana che avrebbero incontrata. Riusciti quindi a raggiungere Trapani, i Cavalieri Templari lasciarono la bellissima effige della Madonna loro salvatrice e ripartirono con prospero vento per la Toscana. Vuole poi la tradizione -saremmo propensi a dire la leggenda- che i Pisani avrebbero solo lasciato in deposito, affidandola al loro console, la statua, con la speranza che il console la rimandasse con la prima nave che salpasse da Trapani per Livorno. Giunto il momento della partenza, la statua non sarebbe riuscita a proseguire il viaggio perché, collocata su un carro tirato da buoi, questi avrebbero preso la via non del mare ma della campagna e si fermarono presso una chiesetta dell'Annunziata, ove erano i Carmelitani e da lì non si sarebbero più mossi. La statua, con solenne processione, fu quindi trasportata nella loro chiesa, dove rimase. Un'altra versione vuole che la nave proveniente dalla Terra Santa, sarebbe stata dai Cavalieri Templari alleggerita di ogni suo peso, compresa la statua, per evitare il naufragio che si vedeva sicuro, anzi imminente. La cassa, contro le leggi di fisica, avrebbe dovuto galleggiare; indi, scoperta da pescatori, sarebbe stata portata a terra e, a questo punto entra il carro con i buoi ecc.” A prescindere dalla similitudine descritta, l'ipotesi che la Madonna delle Grazie del Giglio fosse una copia della Madonna di Trapani, si è continuata a fare strada in modo sempre più imperioso per tutta un'altra serie di considerazioni. Pur essendo vero che, dopo la terribile incursione del corsaro Barbarossa all'isola del Giglio nel 1544 in cui distrusse e incendiò ogni cosa, non è rimasto praticamente nessun documento che possa fare piena luce sulla storia dell'isola nei secoli precedenti, sono pur vere ed accertate storicamente, molte circostanze: nel secolo XIII° il Giglio apparteneva alla potente repubblica marinara di Pisa, la quale aveva notevoli relazioni commerciali con Trapani, in quei lontani secoli capitale mediterranea della pesca e della lavorazione del corallo, prezioso materiale venduto, come anche oggi, a peso d'oro e, all'epoca, con un valore aggiunto legato alla diffusa convinzione di un particolare potere apotropaico, cioè di porta-fortuna. Il Giglio, ricco di banchi corallini, era a mezza strada di navigazione marittima fra Trapani e Pisa. Numerosi ulteriori indizi (che potrebbero comunque essere ascrivibili in parte anche a epoche successive, tipo XV° secolo con il dominio di Amalfi sul Giglio) rivelano notevoli analogie di alcune tradizioni gigliesi con il meridione d'Italia e con la Sicilia in particolare (l'enorme presenza, sul territorio agricolo isolano, di palmenti; la coltivazione del “cavolo torso”; la tradizione della chiave del sepolcro della Settimana Santa; il cognome siciliano “Finamore” presente al Giglio in un raro documento del XIV° secolo; il toponimo, presente su antiche mappe gigliesi di “ciarambella” poi storpiato in cote “ciombella” ecc.
Ma il dato più singolare e indiscutibile di questo tanto arcaico quanto misterioso “filo” che lega il Giglio alla città, anzi all'intera provincia di Trapani, è la coltivazione della vite ansonica. Nonostante che in tempi recenti tale uva venga coltivata anche in altre zone (es. Elba, Argentario, Capalbio ecc.), se si esamina una cartina ampelografica (cioè una carta della coltivazione dei vitigni nelle varie regioni dell'Italia) di almeno 50 anni fa, si nota che il vitigno ansonico veniva coltivato estensivamente e e unicamente sull'intero territorio dell'isola del Giglio e della provincia di Trapani (qui con il nome di "Insolia").
Una foto ricordo personale gentilmente fornita dalla diretta interessata, scattata all'altare di San Mamiliano della chiesa di Giglio Castello molti anni fa, consente di esaminare, in secondo piano, la statua della Madonna delle Grazie del Giglio prima che venisse trafugata e di rilevarne l'assoluta identità con la statua della Madonna di Trapani (la capigliatura sciolta della Madonna, il panneggio delle vesti, il Bambin Gesù che non guarda in avanti ma guarda la mamma e tutta una serie di caratteristiche tipo le dimensioni della mano destra della mano della Madonna, che già i critici d'arte avevano, a suo tempo, notato e descritto nella statua originale del Santuario di Trapani, realizzata in marmo pario e ormai sicuramente attribuibile allo scultore Nino Pisano del XIV° secolo.
Ovviamente è difficile comprendere di che tipo di marmo fosse la statua gigliese e risulta improbabile ogni ulteriore certezza su quel pregevole manufatto artistico: in ogni caso essa rappresentava, prescindendo dall'aspetto religioso e devozionale, un reperto di enorme valenza storica perché probabilmente risalente a epoche della navigazione marittima medievale, periodo molto avaro di testimonianze documentali, soprattutto per l'isola del Giglio.
Armando Schiaffino Presidente Circolo Culturale Gigliese
Il mio solo rammarico, caro Armando, è che oggi tutti vadano a scuola ma nessuno sia interessato alla CULTURA. Le tue parole, da ricercatore affabile e rispettoso delle nostre origini, curano la nostra intelligenza e danno dignità a chi è passato come "gente meccanica" per "lo gran mar de l'essere". Nella società dell'apparire, invece, si vuol solo essere curati nel fisico. Altro non aggiungo. Fiorella
Riguardo la statuetta della Madonna mio nonno, che era capitano, mi ha sempre raccontato che durante i viaggi in mare, passava spesso vicino l'isola del giglio... tutti i naviganti erano soliti portare sulle imbarcazioni immagini della Madonna di Trapani a cui i trapanesi sono molto devoti.. io penso, infatti, che quella statuetta doveva trovarsi su una imbarcazione passata vicino all'isola o che magari è lì vicino naufragata... mio nonno ha perso suo fratello a causa di un naufragio avvenuto proprio a largo dell'isola del giglio ....
Era sempre stata lì, nell’altarino laterale della nostra chiesa.
La gente del borgo considerava quella piccola scultura non più alta di mezzo metro, raffigurante una madonna che tiene in braccio il bambinello, come parte integrante del quotidiano vivere.
L’espressione data dai capelli sparsi leggermente sulle spalle e dal bambino gioioso quasi a cercare il seno materno, linfa di vita, facevano la preziosità di quell’immagine più del delicato marmo da cui era stata ricavata.
Stava al centro di un altarino laterale della chiesa di San Pietro; candide tovaglie inamidate, adorne di ricami e centrini di pizzo arricchivano la piccola scena religiosa.
Come in una strada conosciuta si va tranquillamente, così, la Madonnina di tutti, pregata da tutti, implorata da tutti, stava con la fiducia scontata nella chiesa sempre aperta ai fedeli. Aveva una coroncina dorata in testa e il collo adorno di catenine d’oro; catenine sottili a testimoniare il sacrificio dell’acquisto ma la volontà di mantenere un pegno.
“La mamma è come un albero grande che tutti i suoi frutti ti dà e per quanti gliene domandi sempre uno ne troverà”
Con questo verso che a volte mi ripeteva, la mia mamma un giorno mi invitò a portare una catenina alla nostra Madonna di marmo. Non spiegò il motivo ma io andai con la preziosa scatoletta in mano e gliela misi, delicato filo d’oro, scambio tra una sofferenza da me sconosciuta e la possibile, muta probabilità di una grazia.
Come sempre, grazie Armando.
Alina del Mazzolo