papa francesco isola del giglio giglionews
Cultura della morte e cultura della vita
I contenuti dei post nella rubrica "Dite la Vostra" di questo giornale sono opinioni personali ed informazioni non verificate provenienti direttamente dai rispettivi autori che se ne assumono totalmente la propria responsabilità. La redazione GiglioNews si dissocia preventivamente dai contenuti che dovessero offendere o ledere la dignità di soggetti terzi, fermo restando il diritto di rettifica ai sensi della legge n. 47/1948. (n.d.r.)
CULTURA DELLA MORTE E CULTURA DELLA VITA

Ogni giorno ci troviamo al cospetto di nuove atrocità.

L’ultima, quella compiuta dagli “ultimi” fondamentalismi islamici, propugnatori, addirittura, del ritorno al Califfato”, che avrebbero ucciso circa 500 “infedeli”, seppellendone alcuni ancora vivi, perché, professanti altra fede, non hanno inteso convertirsi.

papa francesco isola del giglio giglionewsCi troviamo ad un crocevia epocale di scontro tra civiltà multietniche evolute, assertrici della vita, e forme (non ce la sentiamo di definire anche queste “civiltà”) d’aggregazioni umane, anzi sostanzialmente disumane, assertrici della morte.

Ragion per cui, il sottoscritto, che, in termini di volontariato, per anni, s’è dedicato alla salvaguardia della vita (tra l’altro, ha fondato e diretto una “rivistina” per gli Alzheimer), non può non abbandonarsi ad alcune amare riflessioni su ciò che sta avvenendo nel mondo.

Dico subito che, ai fini di questa “impegnata” riflessione, ancorchè mi senta laico fin nelle “midolla”,  non posso non prendere atto di ciò che sta facendo la Chiesa, attraverso un Papa come Bergoglio, che, con le sue innovazioni comportamentali, gli aggiornamenti della liturgia, la mancanza assoluta di “prosopopea”, l’umiltà dei costumi, la comprensione d’ogni e qualsivoglia condizione che, pur non strettamente attinente ai postulati secolari professati in materia d’”unioni”, sia espressiva di vero amore e di misericordia, sembra venuto da un altro mondo.

Da un mondo in cui, pur rimanendo imperituro il fine dell’ecumenicità assoluta tra tutte le popolazioni della terra, per la prima volta, ch’ io sappia, nella storia, appena l’altro ieri ha avuto il coraggio di gridare alle genti: “Non si fa la guerra in nome di Dio”.

Credo fortemente, e se esagero, chiedo scusa per questo, che quest’espressione costituisca l’iperbole d’un laicismo assoluto, che nella Chiesa di Roma, istituzionalmente costutuita, fatti salvi “certi” Santi “poveri”, tipo San Francesco, ed alcune correnti di pensiero e di cultura teosofica orientale, tipo il Buddismo, visti soprattutto come sistema e costume di vita, dopo Cristo ed i suoi apostoli, non  abbia mai albergato.

Nella storia, infatti, anche la più recente, s’è fatto strame di popolazioni ed eserciti in nome di Dio, sempre e comunque (almeno così veniva solennemente asserito, prima e durante ogni conflitto) con noi, a discapito degli altri, immancabilmente miscredenti o cattivi, per portare la “vera” giustizia nel mondo delle creature imperfette, in attesa di ricongiungerle con l’entità suprema.

E’ proprio gridando che non si fa guerra in nome di Dio, che, a guardarci bene, oggi si può fare del vero pacifismo.

Ed è’ con la condanna irriducibile di chi sgozza il fratello o rende scandalo ai “bimbi” che si separa definitivamente ed irrevocabilmente il grano dal loglio, non già mandando ambascerie, stracolme di tolleranza verso chi è talmente sordo ad ogni richiamo alla giustizia da non sentire nemmeno le trombe che furono in grado d’abbattere le mura di Gerico.

M’è d’ausilio, per rimarcarlo, appunto, il figlio di quegli ex emigranti Piemontesi, che, a differenza d’eminenti, quanto sedicenti politici e sportivi, che parlano, con disinvolta sicumera e senza alcun rispetto, di “mangiatori di banane” e di “vucumprà”, hanno ben provato quanto fosse salato il pane altrui e quanto duro fosse salire l’altrui scale.

I valori delle popolazioni e delle nazioni civili, stanno, infatti nella tolleranza delle idee, nel rispetto delle diversità, nella salvaguardia dell’identità, della libertà, della giustizia e delle prerogative di benessere per ogni individuo di qualsivoglia colore e costume sessuale, purchè alieno da ogni tipo di violenza.

Costituiscono, invece, aberrazioni insostenibili, e, quindi, da prevenire, punire e stroncare, tutti quei principi che, fanno della violenza, anziché del raziocinio, della dialattica e del confronto, espressi in libertà, lo strumento della sottomissione fideistica, e, quindi, millenaristica e fanatica, al “pensiero unico ed infallibile”, siccome avvenne anche per noi ai tempi bui e feroci dell’Inquisizione.

Purtroppo, là dove non esiste reciprocità nella possibilità di manifestare la propria fede (è, per esempio, di fatto e di diritto, praticamente impossibile costruire una chiesa cristiana sul territorio saudita; così com’è estremamente pericoloso, per un “infedele”, tentare di visitare la Mecca), non può dirsi che esista umana giustizia e rispetto della personalità e dell’identità di chicchessia.

Fatti questi brevi accenni ai tragici contrasti che, tutt’oggi, permangono, tra le diverse fedi e correnti religiose, ma, soprattutto, tra pensiero laico e pensiero religioso che, in specifici ambiti nazionali, così come avveniva da noi al tempo del potere temporale dei Papi, costituisce addirittura norma vincolante ed indeflettibile (ovvero senza possibilità d’appello) per lo Stato, mi sia concesso d’ indugiare (questo è soprattutto lo scopo della mia riflessione) sulle differenze e sui contrasti evidenti che esistono tra un laico agire quotidiano fatto di volontariato e di assistenza concreta, com’è quello, ad esempio, dell’Avis, delle Misericordie, delle Mense per i poveri e per gli immigrati da qualunque parte provengano (frutto di una cultura di rispetto e di solidarietà verso qualsivoglia individuo abbia bisogno di cure e d’ aiuto) ed alcuni fatti drammatici.

Fatti drammatici che, alimentati e cresciuti, appunto, nel “brodo di cultura”, sarebbe meglio dire, “di sottocultura”, ideologico che contraddistingue un certo sottotipo di civiltà, appaiono, soprattutto al cospetto di quel che avviene, in questi giorni, in Nordafrica ed in Medioriente, sempre più “prossimi” a noi, anche fisicamente.

Fatti, che, con specifico riferimento a due precisi episodi, espunti da un coacervo “orrifico” di tanti altri, evidenziano in modo solare, quali “abissi” comportamentali e di pensiero possano separare  gli individui appartenenti, non ostante tutto, ad una medesima specie.

Ebbene, il primo fatto che ha certamente sconvolto e disorientato tutti coloro che, pervasi da un minimo d’amore per la vita, per la vita s’impegnano ad oltranza, come i praticanti del “volontariato” sociale nei diversi campi dell’assistenza, mentre, all’opposto, c’è chi si nutre pervicacemente di cultura della morte, poiché manda, quasi seguisse le cadenze regolari di un agghiacciante metronomo, giovani  e meno giovani, facilmente plagiabili, di labile carattere, di fragile emotività, di perfida esaltazione, a fare strage di gente comune, senza colpa né peccato,  dietro promessa di “facili”, quanto assolutamente indimostrati ed indimostrabili, paradisi di cui carnalmente godere in eterno, è stato quello relativo ad un hezbollah della striscia di Gaza.

Hezbollah, che, alla notizia della morte, in combattimento, del figlio, ha organizzato una festa familiare ed, indossato l’abito più bello, ha chiamato conoscenti e vicini e, comunque, chiunque fosse andato a trovarlo, a giubilare con banchetti e brindisi la tragica dipartita.

E non è, si badi bene, che abbia manifestato senso di paterno orgoglio (cosa più che lecita) per il fatto che il figlio fosse “caduto” per una causa, da lui, ritenuta giusta ed onorevole, ma, molto più pedestremente e tragicamente, ha “festeggiato” la sua morte, lasciando alle donne, in separata dimora, il compito di piangerla.

Di fronte allo “scempio” d’umani sentimenti compiuto da questo individuo, alla frantumazione d’ogni valore storico d’amore verso la prole, con la naturale pietas che avrebbe, invece, dovuto seguirne la morte, m’è venuto da chiedere, senza per altro riuscire a darmene ragione, quale abisso di pensiero e di pulsioni possa mai esistere tra coloro che, giorno dietro giorno, anche in tempo d’Estate, quando tutti anelano ad un po’ di svago ed ad un periodo di “stacco” dalle fatiche ordinarie e straordinarie che connotano l’esistenza, con grande sacrifico personale, si dedicano amorevolmente alle cure di chi è affetto da una patologia irreversibile, come, ad esempio, è quella dell’Alzheimer, cercando di ritardarne, al massimo, il degrado fisico e morale e, quindi, mantenerlo,  il più possibile, in  vita, e quelli, che, come il cittadino di Gaza, orbato del figlio, si compiacciono, invece, della loro morte facendone occasione di tragica festa?

Di più, al cospetto di chi antepone una cultura della morte alla cultura dell’amore e della vita, m’è venuto inoltre da chiedermi, senza trovare, anche per questo, una risposta convincente, quale strada sia possibile percorrere per conciliare due modi di concepire l’umana esistenza. separati  come sono da uno iato di costumanze talmente ampio ed esasperato?

L’altro fatto, che non è di questi giorni, ma che il seppellimento, avvenuto in questi giorni in Iraq, in fossa comune, di centinaia di profughi “infedeli” (alcuni addirittura ancora in vita), ivi compresi donne e bambini, per mano d’una setta di Fondamentalisti islamici, m’ha fanno tornare in mente, è quello d’una giovane pakistana, accaduto qualche anno fa.

Nella fattispecie, trattasi della giovane pakistana di Brescia che, nel tentativo di assimilare la nostra cultura, di conformarsi al modo di vivere della società ospite, che vede ogni cittadino, soprattutto nel campo dei sentimenti, letteralmente “padrone di se stesso”, dismette i costumi della propria etnia e della propria religione, che la vedono “promessa”, fin dall’infanzia, ad un lontano cugino, magari sconosciuto, per andare a convivere con l’uomo che ama.

Anche in questo fatto, con gli eventi che ne conseguirono (lo sgozzamento, a mo’ di vittima sacrificale, della fanciulla e la sepoltura nella nuda terra del giadino di casa, avvolta in un bianco lenzuolo con il capo rivolto alla Mecca, quali tragici rituali atti a redimerla), si appalesano chiaramente, a nostro parere, le distanze, al momento certamente incolmabili, che esistono, non solo tra chi fonda la propria sicurezza e la sicurezza della società, cui appartiene, sul diritto alla libertà di pensiero, di espressione e di comportamento del cittadino, e chi, per ragioni religiose, tribali, di casta e di ataviche usanze, di queste libertà fa invece strame.

Ma, soprattutto, la natura di questo insanabile conflitto s’evidenzia attraverso il comportamento virtuoso dei molti (più di quanti, in genere, non si creda) che, umilmente, nel segreto delle case, in totale solitudine, in questa come in altre Estati, profondono amore verso gli ammalati terminali, che magari non sono neppure loro parenti, e quello, affatto reprensibile, di quegli intolleranti fanatici che, invece, nell’omertà del clan, e magari proprio per non “dispiacere” al clan (autocostituitosi come gruppo chiuso e refrattario alla società che lo ospita, non certo per ragioni identitarie, bensì per ragioni di pura conservazione di casta, basata sulla difformità di diritti e doveri tra i componenti, e, soprattutto, di prevalenza, di sopraffazione e di prevaricazione della volontà dell’uomo su quella della  donna), dispensano odio e praticano la cultura della morte anziché quella della vita.

Non a caso, in queste profonde difformità tra gli individui si sostanzia, giorno dietro giorno, l’acuta e primaziale riflessione di Giovenale sulla natura umana quando scrive: Homo homini lupus; homo homini Deus (L’uomo, talora, è lupo all’uomo; talora, è Dio).