Dedicato ai ragazzi che restaurano i Pozzetti, con un riguardo a Silvano nipote di Ivano Pisciapoco e di Delfa di Culisse.

I LAVATOI DI “VIA DEL DOLCE”

L’immagine di donne piegate, curve su pietre intorno a grandi pozzi o a canali d’acqua intente a lavare panni, le troviamo in vecchie stampe dell’’800. Tali rappresentazioni, quasi sempre in bianco e nero, avvolgono, in un alone di romanticismo e di grazia, figure dai gesti e dall’aspetto gentile. Forse un tributo da parte degli artisti per sottolineare che, pur nella fatica quotidiana, quelle figure erano Donne prima che lavandaie.
Epoche remote, lontanissime dal mondo casalingo che viviamo oggi. La lavatrice è (per fortuna), uno dei primi elettrodomestici ad entrare nell’arredamento di una casa. La fatica più grande che possiamo fare è quella di caricare la lavatrice e dopo, stendere gli indumenti. 
Le antiche Lavandaie non avevano la lavatrice in casa, non avevano l’acqua corrente, non avevano lo scarico dell’acqua. Però avevano le vasche di zinco. Già pesanti da vuote, se le appoggiavano su un fianco colme sino al bordo e partivano per il lavatoio. Ogni paese aveva il suo lavatoio comunale.
Un grande pozzo rettangolare, circondato da pietre levigate dagli scalpellini locali, si trovava al Castello presso la Fonte e veniva usato tutti i giorni dalle nostre ave. Erano i tempi bui dei lumi a candela e le nostre, per essere in tempo a sbrigare i mestieri di casa, arrivavano sul posto appena apriva la porta del paese, subito dopo il levar del sole. Spesso, costrette a lavare gomito a gomito, litigavano per questioni di spazio e se l’antipatia era reciproca si prendevano per i capelli. Altre, cantavano. Se pioveva si mettevano un sacco in testa e continuavano nelle loro fatiche. La robba strizzata la stendevano sui mucchi secchi, tra le greppe, sulla cote e quando tirava vento, i panni stesi al sole venivano fermati con dei sassi. Un quotidiano di tribolazioni e miseria affrontato con realismo e coraggio che rendeva le nostre paesane un po’ dure, animose, ma mai vittime.
Il lavatoio attuale, sistemato due poste più in basso, venne costruito in pieno novecento e l’antico pozzo, trasformato in deposito dell’acqua, fu coperto.
I Pozzetti moderni, più intimi e sicuri, avevano un bel tetto spiovente che proteggeva dalla pioggia ed erano separati l’uno l’altro da muretti di cemento. Un alto ciliegio attorcigliato da edera e rovi allungava i suoi rami fin sotto l’edicola e poco più in basso, l’acqua di scarico formava un piccolo ruscello azzurrino. L’odore di pulito e di fresco sovrastava tutto l’ambiente. Era il turchinetto sciolto nell’acqua dalle lavandaie a lasciare quel profumo; serviva a dare più splendore alle lenzuola e ai panni bianchi. Intorno, tutto un verdeggiare di piante acquatiche che chiamavamo cipollacce e gli orti. In una posta sovrastante i pozzetti, Canapino, il nonno di Giovannina di Cerbone, aveva il pozzo interrato traboccante d’acqua e tante verdure. Ricordo il buon odore del basilico annacquato di fresco.
Tutte le mattine alle cinque in punto di ogni stagione, il messo comunale Calzettone apriva il cancelletto di accesso e molte donne si facevano trovare già lungo le scalette “cu’ le vasche zeppe di robba da lava’ pe’ accaparracci il cannello che buttava di più”. Tante, andavano soltanto per sciacquarla, la robba, dopo il rito del ranno, organizzato in casa.

Per fare il ranno, bisognava mettere la cenere nell’acqua bollente e versarla nella conca di rame in cui era sistemata la biancheria protetta da un sacco di iuta che faceva da filtro. Si lasciava agire tutta la notte. La mattina dopo, si toglieva il tappo alla conca per far uscire il ranno diventato marrone chiaro, il quale, raccolto in un secchio veniva usato per lavare i pavimenti, che diventavano lustri come specchi; persino l’uva, inzuppata nel ranno e messa a seccare al sole sulla cote, prendeva un colore più ambrato.
La biancheria così trattata, mandava un profumo che “se lo sognano gli ammorbidenti di oggi!” Dopo, si portava tutto ai pozzetti per sciacquare e stendere per terra, dove c’era posto.” (Lucia Stefanini, nonna del musicista Andrea Rum).

Tra la moltitudine di donne, emerge una figura che dei Pozzetti aveva fatto il suo luogo di lavoro. Alta, i fianchi larghi, il fazzoletto legato dietro alla nuca e vestita di scuro; si chiamava Carlottona. Rimasta vedova molto giovane e con una figliola da crescere non perse tempo: si rimboccò letteralmente le maniche e iniziò il mestiere di lavandaia. Al mattino, il messo la trovava già seduta davanti al cancelletto con due vasche, le spazzole, il sapone fatto in casa e il sacchetto del turchinetto. Era una persona umile, generosa e in quel mondo di tutto poveri, si accontentava di ciò che poteva ricevere.
Pure io nelle mattinate estive correvo ai pozzetti con un po’ di robba da lava’, dove trovavo le amiche e qualche volta siamo entrate vestite nel pozzetto pieno. Erano i giochi delle ore più calde.

Oggi ho letto che i Pozzetti verranno restaurati da alcuni giovani volontari gigliesi.
Che notizia meravigliosa.
Per chi è nato nello stesso paese ed ha conosciuto una seppur leggera scia di quel mondo che arrivava dall’antico, i luoghi diventano simbolo delle certezze personali, i punti fermi di un vagare nell’inquietudine dell’esistenza e nei meandri dell’animo. Ritrovarli, è come tornare indietro e rivivere quei rumori, sentire ancora l’acqua trasparente che suona, nella sua caduta. I Pozzetti e la Fonte sono luoghi in cui si intrecciavano le notizie, le novità, i pettegolezzi, ma anche luoghi di socializzazione, dei primi timidi sguardi sentimentali tra ragazzi e di amicizia. Per tutto ciò e molto altro, recuperare i cari luoghi di memoria è far rivivere il sentimento della storia del nostro Paese.

Palma Silvestri – della Barroccia