4 Gennaio 1946
“Buona fine e buon principio,” mentre le bottiglie di vino ansonaco, passavano di mano in mano, appena cavate dalle cantine, la frase d’augurio più ripetuta e sentita la sera del 31 dicembre, era quella, col significato di auspicio di finire bene l’ultima giornata dell’anno e principiare al meglio, la nuova.
In casa, il Padre in piena euforia, tra le figliolette che gli giravano intorno e la moglie con il pancione, preparò un piatto rustico toscano di sapore estivo: la panzanella.
La panzanella avrebbe fatto gli onori di casa ai tanti amici che poi invasero la cucina.
La guerra era finita da poco lasciando nel paese, oltre a lutti e sofferenze nelle famiglie, ferite profonde alle abitazioni, causate dalle schegge di bombardamenti avvenuti fuori le mura, ma quell’ultima sera del ’45, tutti andarono incontro all’anno nuovo con speranzosa e timorosa fiducia.
Il Genitore, posti due grossi catini di terracotta con la panzanella in mezzo alla stanza, invitò tutti a ballare al suono del suo mandolino in un girotondo che finì con la quadriglia.
Erano trascorsi quattro giorni dai sorrisi coi calici alzati, dai balli.
E dalla panzanella.
La signora levatrice, detta, la balia, quel mattino di rigido inverno, uscì dalla camera mostrando la neonata al Padre: è una femmina! Disse.
Ma Lui, che ne aveva già due e vagheggiato per nove mesi il maschio, con la faccia più delusa che mai, mormorò: eh la conosco, è come le altre.
E non la prese in braccio.
Ero nata io.
Tenuta in casa 40 giorni come imponeva la regola della Balia, dipendente ancora per pochi mesi del Regio Governo; a giugno sarebbe nata la Repubblica.
“I neonati e la puerpera, devono stare in quarantena tra le pareti domestiche, indi, uscire per il battesimo; solo nei casi di grave pericolo, dopo averli insantati, si possono portare fuori previa chiamata al dottor Pozzolini.”
Insantare: fare il segno della croce al neonato bagnando la mano nell’acqua di fonte.
Lontano nel tempo, ebbi occasione di andare a trovare la signora Icara, la Balia, ormai vecchia e quasi cieca, che con viva curiosità mi chiese: com’è il tuo stato? Sei bella? La fortuna ti è arrivata?
Avevo 26 anni, non mi consideravo affatto bella anche se cercavo di trovare una mio stile e in quanto alla fortuna ... come tutte le giovani di belle speranze ... ero in attesa.
- Perché questa domanda - risposi.
La donna, muovendo gli occhi bui verso di me, raccontò che oltre al rifiuto di babbo a non volermi vedere, quel mattino, subii un torto dalla natura perché nacqui grinzosa e con le orecchie molto pelose. Una scimmietta, tanto che lei, colta da compassionevole tenerezza, con l’intenzione di addolcirmi il futuro, prese lo zucchero e me ne versò sul minuscolo ventre “una intiera zuccheriera”.
L'episodio del rifiuto momentaneo del Padre e la storia dello zucchero, non mi mortificarono, anzi, bilanciai tutto coi caldi ricordi d’infanzia, quando Babbo mi propinava indovinelli che intendevano una trovata fuori dalla logica, ma intuitiva; difficile. Poi schiantavamo da ride, dando le risposte.
Gli ero grata, di quando alla mia snervante curiosità di sapere come e dove fossi nata, lui rispondeva “ti ho trovata nell’orto dentro una foglia di cavolo cappuccio” e io, un po’ delusa, invidiavo le sorelle arrivate da lontano, in volo con la cicogna, così, quando mi capitava di vedere in cucina un cavolo, scrutavo bene che tra le foglie non ci fossero altri bimbi là dimenticati.
Gli scrivevo letterine di Natale, che mettevo sotto al piatto il giorno della festa. Parole brevi dalla calligrafia incerta, lettere larghe, lunghe tutto il rigo, per dire: ... prometto di essere più buona ... ma più buona di cosa nell’età dell’ingenuità assoluta e del bene primario, dimostrato dal candido e gioviale cuore che mi batteva in petto.
Palma Silvestri
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