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In memoria di Enio (La valle del Terraio)
Anche i castagni, e i faggi e i carpini ed i pini, gli abeti, gli aceri ed il cipresso triste, le lucide foglie del lauro ed ogni altra pianta della valle gemevano quel giorno di luce piena, quel mattino di limpido sole invernale, che, pian piano, salendo con passo greve, la volta del cielo, disfaceva, lento e sicuro, gli spessi banchi di nebbia, rinserrata e costretta nella gola, sinuosa e difforme, tra le “mura” scogliose del bosco e le ardite pendici della montagna immacolata.
A goccia, a goccia, a stilla, a stilla, per tratti intensamente: non appena soffiava, improvviso, un alito di vento, le onuste fronde del colle grondavano, ardenti, il ghiaccio della notte.
A me parevano lacrime iridescenti, di sovrumano dolore e di passione, quelle gemme, brevi e silenti, che un'urna, gonfia di liquido cristallo, sgorgava, gelide, sulle nostre coscienze confuse, ancora stupefatte e incantate, sulle nostre voci dischiuse, bisbigliate e rapprese, superne tra i vapori dell'aria, richiamandole ai misteri della morte improvvisa e inaspettata.
Era stata, infatti, ben improvvisa e inaspettata quella di Enio, mentre attendeva, tra i rumori naturali del bosco e il latrare concitato dei cani, ormai prossimi, che il cinghiale comparisse, fumante, al suo cospetto, ai piedi degli alberi sinistri, sulla curva sconnessa.
La sorte, infatti, lo colse, pienamente, in un “battibaleno”, sul traverso, mentre, allo scoperto, s'inchinava, per “scaricare” l'arma sull'ispida figura “periclante”.
Dal lato opposto del "tratturo", risuonò secco un colpo. Un colpo solo bastò perché il destino si compisse.
D'un tratto, trasalì la muta! D'un tratto, raccolte, in un ultimo slancio d'insperata salvezza, le possenti membra braccate, l'irsuto, ansimante, “solengo” si dileguò pel monte. D'un tratto, tacque la valle e s'udirono, da lungi, le campane, mentre Enio, riverso, tra pietre di sangue, sul fianco squarciato e trafitto nel cuore, oltre il cuore, annaspava, gemendo, nell'aria torbida e remota, a cercare il respiro ed il tempo, a fissare, stupefatto, con occhi ormai spenti, la corolla del sole precipitare, veloce, nell'occaso del suo deliquio, nei recessi, ormai brevi, della sua vinta memoria, della sua perduta esistenza.
Un compagno di caccia, un vecchio, caro, compagno di tante spensierate letizie, di tanti momenti di "scherno" al rialto, l'aveva annientato per sempre; l'aveva stroncato nella sua proverbiale gaiezza. Aveva disperso, col sangue, la sua anima buona e silente tra le fronde del bosco, ov'ora alberga, sparando incautamente, mentre il cinghiale, che, "ratto", cercava scampo, insinuava, veloce, il suo vello tra posta e posta.
Regole antiche, d'accorto e opportuno buon senso, norme antiche di sacro, venatorio lignaggio erano state, irrimediabilmente, infrante in un attimo breve di perenne dolore.
Per questo, sulla strada del Terraio, appressati al tragico sacello di sventura, che una madre, incanutita anzitempo, aveva eretto sul luogo, che vide il frutto, prezioso, delle sue viscere violato e "abbattuto", per sempre, assistevamo, chini, in commosso silenzio, al rito d'anniversario, inopinatamente redarguiti da un anziano prete del Nord, che, pur non sapendo di caccia, commemorava, solerte, i suoi morti, minacciando, però, con accenti gravi di fede e di sempre incombente periglio, I'incerta sorte, presente, dei vivi.
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