Sull’isola le storie escono come i funghi in questa stagione. Basta un niente, un camminare per strada e spuntano racconti, ricordi, aneddoti. Come accade a chi va per funghi che, quando la stagione è buona, quasi quasi ci inciampi.
E tutti sembrano lì pronti a mostrarteli, belli, schietti, profumati nei loro panieri di vimini o sacchetti di plastica. Funghi come racconti, ricordi di una vita. Come chi va per funghi bisogna però saper aspettare, farsi trovare attenti, ma non chiedere; avere occhi e orecchi ma non lingua. Se ti muovi cauto, rispettoso, i ricordi troveranno te. Altrimenti niente, torni col paniere vuoto. Gli isolani sono ospitali ma diffidenti coi forestieri. Ti studiano, scrutano, e solo se capiscono che possono fidarsi si aprono. Altrimenti niente, torni a casa con un buongiorno o nemmeno quello.
“Guarda, qui tutti sanno chi sei e cosa fai. Fanno finta di non vederti ma sanno tutto, anche cose che magari non ricordi più perche la loro rete di informazioni è ramificata. Ti hanno già catalogato in un compito, perché qui sull’isola tutti hanno un compito”. Questa presentazione della comunità me la fa Sergio, ingegnere prestato al Comune che viene dalla laguna, conosce a memoria questa comunità ma sa di non esserne originario anche se viene qua “da quando andavo alle medie”. Da allora c’è tornato ogni estate, anche in viaggio di nozze. “Poi la vita mi portò da altre parti e ora che ci vive la mi’ figlia ci vengo anche a lavoro”. Nonostante tutti questi anni di frequentazione, Sergio, una mattina che si trova a passare per una ruga del castello, si sente dire di dietro: “Chi è quello? È il babbo della bidella”. “Capito? Qui tutti hanno un ruolo, e io non sono Sergio che per quarant’anni è venuto sull’isola, e nemmeno il babbo di Valeria, ma della bidella”.
Storie che spuntano, improvvise come funghi d’autunno. Come quella diAldo. Oggi pomeriggio, ero nell’unico caffè aperto al Castello, una pausa insieme con Alessandro, l’architetto del Comune. Il locale è pieno di uomini, le uniche donne (Nede e la zia) dietro il bancone. Caffè rapido e poi si riprende per in sù. Aldo ci blocca poco prima della salitina, proprio sotto la lapide del plebiscito del 1860, quello voluto e vinto dal barone Bettino Ricasoli, che qui ancora campeggia davanti al portone del palazzo comunale. E ci racconta la sua storia.
Nel 1952 fu il primo al Giglio ad avere la patente e l’unico a guidare la sola macchina che qui circolava per le strade tutte curve, scarrozzava il medico che da porto al Campese a Castello andava a far visita ai malati. Poi, il lavoro al Comune, a riempire la cisterna che riforniva d’acqua non le case (in casa era di là da venire) ma l’unica fonte pubblica, quella dove ancora oggi i castellani vanno a fare scorta di acqua potabile con le bottiglie di plastica riciclate all’uso. All’epoca quella era l’unica fonte ma non era sufficiente e allora veniva rifornita con le bettoline dal mare che arrivavano una volta a settimana.
“Ci si stava bene ma sentivo che non volevo rimanere qui isolato per tutta la vita”. E allora con la sua sposa, Aldo decide di andarsene a Milano. Non capisco bene dove ma non oso approfondire, comunque tra Milano e Como in fabbrica. “Qui il primo giorno mi fecero pulire i vetri e alla fine, dopo trent’anni, ero responsabile di due reparti”. Te lo dice con un sorriso che trasmette serenità e la convinzione di avercela fatta nella vita. Partito con poco o niente alla fine aveva la responsabilità di due reparti, di cosa non importa. Fatto sta che da lassù aveva chiamato negli anni altri compaesani, e in tanti, dice, se ne erano andati a lavoro dove lavorava lui. “Lo hai visto quel ragazzo lì al muretto con me? Ecco, lui è stato sotto di me per tanti anni, ora anche lui è tornato”. In verità, di ragazzi sul muretto della porta non ne avevo visti. Erano tutti pensionati, come sempre accade ogni giorno. Ma capisco bene quel che intende Aldo.
Tira vento, stare in strada comincia ad essere faticoso. Ci salutiamo. Sono sicuro che più avanti mi rifermerà. Torno a casa, il paniere per stasera è pieno.
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L'isola e il suo paniere di ricordi. Da cogliere
Autore: Michele Taddei
2 Commenti
Sig.Taddei la prima parte della lettera quella del rapporto con gli "STRANIERI"di cui faccio parte è proprio azzeccata però il loro sapere tutto di te molte volte è dato dal sentito dire ed a volte da pura e semplice maldicenza che si trasforma in verità difficile poi da togliere. Un altro pregio simpatico è quello di dare soprannomi e qualcuno di questi è proprio simpatico e divertente.cordiali saluti
... Bellissimo quello che Lei ha scritto ... è tutto vero !!!!!!!! Per questo motivo, speriamo che ci siano ancora tantissimi panieri, al Giglio ci sono ancora coloro che ancora li ... costruiscono ... Noi che rimaniamo sempre Ospiti, cerchiamo di rispettarne l'autenticità ... Grazie per avercelo ricordato ...