Quella sera arrivammo puntuali con i nostri leggeri travestimenti e una gran fame. I miei genitori mascherati da pistoleri, noi tre sorelle adornate con fiori di carta velina sulla testa, sui vestiti e tirava un fortissimo vento di Libeccio.
Al nostro paese, prima di entrare in una casa che festeggiava il carnevale bisognava dire una frase, sempre la stessa, formulata con allegria falsando la voce per non farsi riconoscere; il mio babbo, spalancando la porta dei nostri vicini che ci aspettavano per cena, la disse: “TRRRRRRH! NE PASSA MASCHERE?”
Quella famiglia aveva un cane che se ne stava accucciato sotto la tavola; il gesto e l’urlo improvviso fecero sobbalzare la povera bestia che abbaiando inarcò la schiena sollevando il desco già apparecchiato e… tutto finì per terra: cavatelli, vettovaglie, vino e ...vinella.
Dina la baffona che era una donna dalla figura tozza e rotonda andava su e giù per la cucina a mani giunte ripetendo come una litania: “oh, core di mamma!” Rosina, la giovane nuora teneva in braccio il biondo Daniele mascherato da indiano e intanto guardava il misfatto sussurrando con disperazione: “‘ndiòooo!”
Il vento, dai deboli infissi della finestra, ululava forte; arrivava dal mare, dalla notte buia e metteva i brividi.
Addossate alla porta con la faccia bianca di cipria, le labbra rosse e il neo sulla guancia, noi tre sorelle fissavamo attonite il cane che scodinzolando leccava il nostro pasto sul pavimento.
Fermina, la figlia di Dina e di Luca, non era una gran bellezza, ma la figura slanciata, i capelli castani morbidi sulla fronte e la bocca carnosa dipinta di rosso corallo, la rendevano piacente e simpatica. Per l’occasione, indossava un vestito verde di tulle e raso che arrivando alle caviglie le fasciava i fianchi guarniti da un drappo dello stesso colore.
L’abito era arrivato nel pacco dei parenti emigrati dal Giglio anni prima, i parenti americani; anche le scarpe erano americane, bianche a punta col tacco a spillo. Lei, in età dell’amore, non si era travestita come noi, ma fatta bella, per garbare.
Un cavatello le era schizzato sul raso.
Un flebile suono che aumentando d’intensità si rivelò strumento e poi mazurca si levò nella stanza sovrastando l’indicibile baccano, era l’organetto di Luca, il capofamiglia, che appoggiato al muretto del focolare spingeva, stringeva, allungava il mantice con l’energia di chi vuol dimenticare una rabbia. Suonava sempre più con foga il buon vecchio portando una spalla in avanti mentre girava la testa da una parte all’altra ritmando con un piede; quel suono calmò gli animi di tutti, solo il vento continuava.
Il cane satollo venne legato nel sottoscala, fu sistemata la tavola e la festa iniziò. Questa volta si mangiava davvero, con altre zuppiere fumanti, si beveva con altro vino grazie a quell’omino che agitando le dita nodose sui piccoli tasti, ricostruiva il nostro buonumore.
Finita la cena, il mio babbo mandò un brindisi: “Stasera il cane ci ha mangiato i cavatelli, ma noi sotto la cappa ne avevimo degli altri e ancor più belli. Fuori c’è un vento che porta via, buon divertimento a tutta la compagnia.“
Il tavolo venne spostato alla parete e le danze ebbero inizio.
La mazurca imperava sulle nostre teste colme di coriandoli. Luca, seduto su una sedia posta sul tavolo, le maniche della camicia arrotolate sulle braccia ancora forti suonava annuendo beato alla processione di infermieri, spose, pirati, preti, cavalieri, figure dal volto coperto che lasciando scie di canfora e lavanda entravano nel divertimento effimero portando un’allegria crescente.
La storia di questa gente veniva dalle greppe, dalle cave di granito, dalla miniera, dalle capre, dalle reti mollate e salpate, da tutto un mondo ereditato per nascita fitto di doveri e di stenti, ma mai, mai di sconfitte. Anzi. Come in un capisteo i legumi venivano diligentemente separati dalle impurità, così i miei paesani capavano la loro esistenza con saggezza e non perdevano. Evviva dunque il Carnevale dispensatore di illusioni che fanno bene.
Il batticuore per incontri sperati, di amori nascenti o vissuti nascosti con l’ansia di esser scoperti, spesso accompagnava tali entrate che si annunciavano sempre con la voce in falsetto: ..”TRRRRRRH! NE PASSA MASCHERE?”
Altre cose si nascondevano nella memoria di quel passato, ma la voce buona dell’infanzia mi porta solo ricordi dorati: nulla poteva cambiare in un mondo racchiuso dal mare con le persone che amavo.
Fuori dalla festa, nei vicoli, oltre le mura, il vento testardo combatteva contro il mare in burrasca, ma era lontano, molto lontano da noi.
Domani il Dì delle ceneri avrebbe trovato ogni cosa al suo posto. Si sarebbe calmato pure il Libeccio.
Palma Silvestri (della Barroccia)
L'organetto di Luca (un Carnevale gigliese)
Autore: Palma Silvestri
2 Commenti
Cara Palma Nel leggere i tuoi racconti pieni di sentimento e di particolari che risaltano la semplicità della vita passata, mi commuovono sempre. Sei molto brava!Complimenti! Sergio Giorgi
Cara Palma tu per questi racconti sei unica, certamente poi sei in possesso di una memoria fuori dal comune per ricordarti anche di piccoli particolari successi tanti anni fa, davvero tanti complimenti. Un abbraccio.
CARLO CENTURIONI