Sono andata a cercare, nella scatola di metallo una volta piena di biscotti Lazzaroni, una foto in bianco e nero di quando avevo nove anni. Ho il vestitino bianco, riadattato, della prima comunione, accanto ci sono le mie sorelle, i genitori, gli zii e tutti, sorridiamo seduti davanti ad una lunga tavola piena di fiaschi, bottiglioni, bicchieri a calice e tovaglioli candidi come la tovaglia. Alle nostre spalle, sulla parete laterale del locale, pende in avanti, un grande specchio rettangolare, decorato con la stampa di una rosa rossa.
Quella foto, è il racconto di un banchetto di matrimonio castellano svoltosi nella sala dei Lombi: la nostra sala, ereditata dai nonni e nonne che l’avevano costruita letteralmente sasso su sasso, legno su legno, mattonella su mattonella, proprio per il loro divertimento più sentito: il ballo. 

Immagino con quanta emozione ed orgoglio i nostri antenati accennarono vestiti a festa, al primo giro di valzer sul pavimento nuovo, accompagnati dalle note di clarinetti e trombe.
Io, come tante altre bimbe, ho imparato a ballare nei cantoni della sala; tra spinte e salti, il ritmo della mazurca mi entrava nei piedi, nella testa, tanto che da signorina, diventata ballerina provetta, ero convinta che avrei sposato soltanto un uomo ballerino (!!!)

I fotografi di allora erano Ottorino Brandaglia e Marelli che veniva da Porto Santo Stefano. 
Altre foto in bianco e nero raccontano di veglioni di carnevale e di sala talmente gremita che le teste cosparse di coriandoli sembrano un tappeto.
Morivo dal freddo, ma le occasioni per indossare quell’abitino scollato, di raso e tulle rosa, erano così rare che per la Pentolaccia strinsi i denti e prima di salire ai Lombi, una sosta da Nada, la nostra parrucchiera-amica, per l’ultimo tocco ai capelli: cotonati e laccati non li avrebbe più smossi nemmeno quel ventaccio, che sempre tirava lungo le mura davanti alla sala.
Ballavamo a turno con i “fiocchetti” colorati.
I capisala, per evitare pienoni che generavano gomitate, chiamavano un colore e chi aveva quel colore ballava, i cavalieri tenevano il fiocchetto sul bavero della giacca e quasi nessuno sfuggiva al controllo.

Quanti sogni in quella sala!
Chi non ha vissuto una storia d’amore iniziata col ballo della mattonella?
Dal Porto arrivavano ragazzi allegri e chiassosi. Venivano a “cavarci”. Chiedevano - “Sei impegnata?” - Si, sei balli - “Allora prenoto il settimo” e nelle pause offrivano da bere. Poi si innamoravano delle castellane.
Al bar, c’era l’aranciata san pellegrino, il chinotto, la spuma e naturalmente il vino ansonico. Ho una foto dove alla cassa c’è Amina della Balina, al banco Fermina di Luca, mentre il mio babbo fa il cameriere con un vassoio in mano e il tovagliolo sul braccio. 
I balli, ai Lombi terminavano dopo mezzanotte e si chiudevano con la quadriglia, che, con la “grande scena a mano” faceva incontrare tutti. Persone che si portavano rancore da anni, là, volenti o nolenti, dovevano stringersi la mano.
Poi … tutti a casa.
Assonnata, con il mal di piedi, non facevo più caso al vento che mi spettinava. Il divertimento effimero era finito. Mi portavo dietro la polvere, il sudore e nel cuore il calore di una stretta che era quasi un abbraccio e sicuramente amore, di quel ragazzo dallo sguardo tenero col ciuffo sulla fronte, che avrei ritrovato, col batticuore, proprio là nella nostra sala dei Lombi.

Quarantacinque anni dopo, la sala ritorna ai gigliesi e propongo, tra le molte idee che scaturiranno dalle associazioni, di conservarne la memoria attraverso l’esposizione permanente della sua storia scritta e illustrata ed esporla ad una parete, magari arricchita da oggetti e manufatti tipici della scomparsa civiltà artigiana e contadina.
Mi chiedo se per una volta, potremo ripetere la magia di un veglione tra di noi, ignorando il tempo, le rughe che ci hanno trasformato ed entrare nella festa (anche spinti dal vento) con la stessa freschezza di allora.

Palma Silvestri