Seduta sulla spiaggia del Campese perduta nella contemplazione di uno spettacolo eterno e sempre nuovo, mi raggiunge l'eco di un bisticcio di bimbi (ma quanti bimbi e quanto belli!). E' una biglia blu che si contendono: “E' mia è mia!”. Interviene la mamma che con voce suadente spiega che le biglie sono tutte uguali, che senz'altro il bimbo che la pretende ha ragione, che lui la sua la troverà, prima o poi. Così dicendo si mette a cercare in una montagna di giocattoli che sono un arcobaleno di colori: palline, secchielli, barchette, braccioli, formine, rastrelli, enormi delfini, improbabili elefanti che a fine giornata il babbo raccoglierà in una rete capiente, così come fanno i pescatori con il pescato. La biglia blu riappare, la lite finisce, io ritrovo la mia quiete.

Ma ora ho un pensiero nuovo in testa... Noi come giocavamo? Un salto nel passato, anni di autarchia e di guerra. Uno dei giochi che mi piaceva tanto era il “Mondobello”. Già a Natale mettevamo da parte l'involucro di carta stagnola che avvolgeva il panforte. Unico dolce non casalingo che appariva sulle nostre mense. Poi durante le scorribande intorno al Castello cercavamo un pezzetto di vetro di bottiglia verde, meglio se concavo. Ma perché nessuno rompeva mai niente allora? Conservavamo con cura i nostri reperti fino a primavera. Allora solitarie ce ne andavamo appena fuori dalle mura e nei terreni incolti, pochi allora, cercavamo uno spazio poco erboso, scavavamo una buchetta nel terreno, tanto grande quanto era il vetro che possedevamo, mettevamo sul fondo il pezzetto di carta stagnola. Poi poggiavamo una margherita appena colta, o un altro fiore, contornata da fili d'erba, capelvenere pericolosamente colto dentro i pozzi degli orti vicini e fiorellini minori. Coprivamo il tutto con il vetro e poi con la terra, cercando di metterci bene in mente dove avevamo lasciato il nostro tesoro. Poi nei giorni successivi portavamo le amiche in visita. Lentamente lentamente scoprivano scoprivamo dalla terra il vetrino e stupore, il tutto appariva molto più bello di come l'avevamo lasciato, come se la terra avesse apprezzato la nostra opera e volesse gratificarci. Dall'ammirazione della campagna ci veniva grande soddisfazione e il desiderio di migliorare l'opera nel futuro.

Naturalmente questi piccoli giochi acuivano la nostra fantasia e ci educavano al gusto. Nessuna avrebbe mai messo colori stonati o fiori che non avrebbero tollerato la prigionia. Così crescevamo nell'amore per il bello e per la natura e le inventavamo di tutte finché arrivava il tempo della scuola e la cattiva stagione ci costringeva al chiuso dentro le mura e dentro le nostre case che poco spazio concedevano ai giochi di bimbi.

La nostra bambola era di pezza e non tutte le bambine le avevano. Aveva un corpo piatto sormontato da una pallina di pezza su cui con la matita copiativa venivano segnati gli occhi. E un ciuffetto di lana di pecora veniva fissato sulla sommità del capo con il filo e l'ago. La colla non c'era. Le braccia e le gambe erano due cilindretti alle cui estremità erano disegnati i piedini e le mani. Qualcuna aveva anche le unghiette rosse, fatte con lo smalto che solo qualche signorina forestiera aveva introdotto al Giglio. Io ricordo un astuccino delizioso che possedevano Flavia e Santina, due sorelle impiegate all'Ufficio Postale. Quando lo aprivano era una meraviglia: due boccette piene, uno di smalto bianco e uno rosso e nel mezzo un pennellino. Erano gentili, ma se avessero ascoltato tutte le richieste di noi bambine non avrebbero più avuto lo smalto per sé.

Chi aveva la bambola di pezza era molto considerata e veniva invitata a partecipare ai giochi. E c'era anche la palla di pezza. Che con la palla aveva poca rassomiglianza. Tant'è nella piazzetta del lampione noi la lanciavamo sulla parete dove ora sono le lapidi ricordo. Vinceva il gioco chi faceva un bel numero di lanci senza mai farla cadere.

Piccole cose senza valore, che riempivano il nostro piccolo mondo tanto bello.

Caterina Baffigi Ulivi