Riceviamo questa poesia, dedicata ai gigliesi ed alla vicenda Costa Concordia, scritta nei mesi scorsi da Nazareno Caporali. La pubblichiamo di seguito:

"Cantami, o Diva, del fragor di rombo
udito nella notte cupa e silente.
Donami, o Diva, l’inclito verso che già
immortale cantò l’eroiche gesta
de’ guerrieri greci e de’ troiani,
d’Ettorre e d’Achille l’aspra pugna.

L’aprico scoglio silente delle Scole
che dal mar si sporge chiese alto pedaggio
a chi troppo vicino indegnamente passar
volea, lasciando nei ventre della nave
terribil dardo a monito di tutti:
come saetta scagliata da un guerriero
accascia l’avversario senza scampo,
così lo scoglio irato trafisse a morte
la nave che osò solcarne l’acque,
senza rispetto per le sue ignee immortali
rocce he Vulcano fabbricato avea con mano
forte, e che Poseidon ivi pose a protezione.

L’immoto silenzio della corvina notte
rotto fu da urla e grida dei poveri tremanti
che accorrien a centinaia da l’una
parte e dall’altra della morente nave,
a poppa e a prora, a manca e a dritta,
e panico e scompiglio carpì l’anime loro
quando sentiro la nave ormai sin vita
nell’acque scure vagare inerme
senza guida di suo nocchier che la portasse
in sicurezza lontan dallo periglio.
Che far? Pensaro i tristi naviganti.
D’acerba morte niun preso vuol esser.
Tentiam la sorte lasciandoci cader dentro
il cinereo mar, per poi tutti perire
inghiottiti dall’empio aspro flutto?
Preghiam i numi perché aita porgan
a trar noi vivi da cotal trista situazion?
Qual tristo fato ormai ci attende?
Che costa è quella? Dove siam giunti?
Qual porto infra quei lumi s’asconde?
Genti tremanti e infreddolite,
all’Isola del Giglio approdaste.

Mossi dal fragor, da grida, da mille luci
qual lucciole estive in notturno volo,
videro i nativi isolani lo scempio fatto,
frutto d’ignavo e inetto comando.
Esperti naviganti, udiro i sette fischi,
segno dello maggior periglio e
dell’immenente morte che incombea
sui piangenti passeggeri ormai di spem
digiuni, a prematura morte pronti.
Un motto solo: Ordunque andiamo!
Nessun indugio, nessuna titubanza!
Salutaron mogli e bimbi lor.
Il dover ci attende, alla chiamata
niuno inerme e immoto resta.

Correa ciascun gigliese, di mare
esperto per lungo navigare,
chi ad aiutar con barche e incitamenti,
chi salì l’impervia prora alacremente
per sdipanar provvida biscaggina,
chi tor dall’acqua naufraghi smarriti,
per lor seco menar verso approdo sicuro;
lor donne apriron l’uscio delle case tutte,
sacra ospitalità forniron, e aiuto,
caldo cibo e morbida coperta com’è usanza
fino dal tempo che si canto d’Ilio,
d’arme, d’eroi le guerriere gesta.
Ad uno ad uno salvati furon i passeggeri
che a mille a mille erino a frotte,
ma nulla poteron con chi travolto fue
dall’onda nera quando la nave
andò a dormir suo sonno eterno
sul fianco poggiata al granitico fondale,
chiedendo ultimo aiuto alla Gabbianara.
Inutilmente cercaron chi avia lo scettro
di comando e guida della nave, chi
avia menato a questo assurdo incredibil
scempio di umane vite, perché colui
a niuna guisa rimanere volle, e anzi
primamente scappò da quella nave,
e invan chiamato di restare, fuggì via,
non pria di proferir impavido Va buo’.

Ma voi ci foste, Gigliesi tutti,
coperti e carichi di giusta ammirazion
del mondo intiero, che con gli occhi lustri
vide in voi pietas, coraggio e cuore.
Ed or, in ogni remota terra e riva,
ognun, nella sua lingua natia,
or vuole e puote fieramente dire:
anche io sono un Gigliese.

Nazareno CAPORALI

Gennaio 2012"