Storia di un buco
Anche tutti quelli che sono sempre pronti a denunciare e sottolineare le inefficienze dell'amministrazione comunale devono riconoscere che questa volta, “rari nantes in gurgite vasto” e anche se principalmente per merito personale del dipendente Marco Medaglini, il restauro dell'"arco di Momina" a Giglio Porto rappresenta un'opera veramente ben fatta.
Per i non Gigliesi bisogna innanzitutto specificare che per “arco” si intende uno di quei passaggi a galleria che permettono di far comunicare il lungomare del Porto con la zona retrostante la fila ininterrotta di case. L'arco di cui si parla è stato oggetto di un'opera di manutenzione che ha visto riprendere con gusto l'intonaco delle pareti, lasciare alcuni tratti a faccia vista, posizionare in maniera razionale alcune “tartarughe” per l'illuminazione notturna; in alcuni punti dell'intonaco, con improvvisato e felice estro artistico, sono stati incastonati piccoli stemmi di coccio recuperati da vasi rotti, che erano stati realizzati a suo tempo e utilizzati per l'arredo urbano dall'ingegner Cesare Scarfò; i suddetti frammenti rappresentano lo stemma dell'Isola del Giglio ai tempi del dominio senese della famiglia Piccolomini (1400) e il loro reperimento nell'attuale intonaco creerà sicuramente molte discussioni fra gli archeologi che, fra mille anni, esamineranno l'intonaco dell'arco.
Ma, attualmente, a un esame attento del manufatto, la cosa più curiosa è rappresentata da un buco in una pietra di granito, prima tappato dalla calcina e ora vuotato e ripulito. Tale buco è situato nello stipite dell'uscita a monte dell'arco a un'altezza e in posizione tale da indicare, senza ombra di dubbio, che fosse a suo tempo funzionale alla presenza di un “ferracchione” (chiavistello) e che quindi, in un certo periodo, l'arco fosse stato chiuso da un cancello. Mentre tutti gli altri archi del Porto sono aperti, ne esiste uno nella parte verso il Saraceno (“l'arco di Giacone”) che è tuttora chiuso da un cancello di legno perché immette in un orto privato: che l'arco di Momina fosse stato una volta chiuso non si è però mai ricordato a memoria d'uomo; è nata quindi spontanea la necessità di riuscire a capire in quale epoca del passato tale “buco” fosse stato “funzionante”.
Da un documento manoscritto contenente la descrizione dei Giglio Porto nel 1710 conservato all'Archivio di Stato di Siena, si evince che in quegli anni il Porto non era ancora abitato e che le sole costruzioni presenti erano magazzini appartenenti ai Castellani. Il retroterra del Porto era tutto coltivato e privato. L'unica strada pubblica era la vecchia mulattiera che conduceva al Castello. E' verosimile quindi che tutti gli archi fossero all'epoca chiusi perché consentivano l'accesso a terreni privati. Solo nei decenni successivi, dopo gli editti granducali per favorire l'immigrazione (importante quello del 8 marzo 1728 in cui si agevolava l'acquisto del sale per la conservazione delle acciughe) i pescatori napoletani e liguri che già da secoli frequentavano i nostri mari, cominciarono a insediarsi stabilmente, costruendo le proprie abitazioni sopra i preesistenti magazzini. Il primo requisito per consentire tale insediamento era ovviamente la disponibilità di acqua potabile (la condotta di S. Giorgio sarebbe stata costruita solo nel 1846). L'unica sorgente disponibile in loco era quella “degli Angiolini”, allora di proprietà pubblica e protetta da un manufatto in muratura tuttora esistente, ma non raggiungibile dalla spiaggia del Porto. Fu quindi realizzato un sentiero che iniziava dall'arco di Momina – che quindi da allora divenne passaggio pubblico- e proseguiva attraverso l'attuale via dell'Asilo: nelle mappe dell'epoca l'intero sentiero è denominato “Strada degli Angiolini” e nell'ultimo tratto coincide con l'omonima valle, che però poi segue un altro percorso e sbocca a mare nella cala del Saraceno.
L'entusiasmo patriottico e le vicende della storia nazionale della prima metà del novecento comportarono anche a Giglio Porto una rivisitazione della toponomastica locale e la via degli Angiolini divenne “Via Trieste” (come altri vicoli del Porto presero il nome di “Via Fiume”, “Via Cadorna”, “Via Trento” ecc.: anche via Cristoforo Colombo diventò Via Thaon De Revel); i Portolani però continuarono a chiamare il passaggio, più prosaicamente, “l'arco di Momina” che, a un certo momento, fu deciso che dovesse rappresentare il confine fra il rione Saraceno e il rione Chiesa.
Il resto è storia recente.
Armando Schiaffino
BRAVO DOTTOR SCHIAFFINO! BRAVO, PER TRE MOTIVI. IN PRIMO LUOGO, PERCHE', SPOGLIANDOTI D'OGNI SPIRITO DI PARTE, HAI DATO MERITO A CHI DI DOVERE, AMMINISTRAZIONE E MARCO MEDAGLINI DEL RESTAURO DEL VICOLO (UNA VOLTA BUIO ED EMANANTE CATTIVI ODORI, DOVUTI SOPRATTUTTO AD AFFRETTATE DEIEZIONI, MAGARI DOVUTE A PROSTATE MALANDATE, SE NON ADDIRITTURA A PIU' CONSISTENTI EVACUAZIONI). IN SECONDO LUOGO PERCHE', PARTENDO DAL RESTAURO, CI HAI FATTO DONO D'UNA RICERCA DELLE "RADICI" DELL'ISOLA ASSAI INTERESSANTE E, PER QUEL CHE MI RIGUARDA, DEL TUTTO SCONOSCIUTE, QUANTOMENO PER LA PARTE RELATIVA ALLO "STATUS" DEL PORTO, UNA VOLTA, DESERTO D'ABITAZIONI (COSA CHE AVREI, INVECE, DOVUTO IMMAGINARMI, CONSIDERATE LE PERIODICHE SCORRERIE PIRATESCHE). IN TERZO LUOGO, INFINE, PERCHE', ENTRANDO NEL DETTAGLIO DELLE ORIGINI DEL VICOLO STESSO, TI SEI PRODIGATO IN UN "EXCURSUS" RELATIVO AI COLLEGAMENTI TRA L'ENTROTERRA ED IL MARE, VOLUTAMENTE E NECESSARIAMENTE ANGUSTI PER LE RAGIONI APPENA SOPRA ACCENNATE, ED ALLA LORO CONFORMAZIONE INTERNA, SUGGELLATA DA CANCELLI PRESENTI O, COL TEMPO, RIMOSSI. UNA SOLA COSA E', SEMPRE A MIO PARERE, RIMASTA APPESA AI MARGINI DELLA MIA CURIOSITA', ALLA LUCE DEL FATTO CHE VIE, VIUZZE E VICOLI HANNO CANGIATO NOME RISPETTO ALLE ORIGINI, OSSIA, CHI ERA O COS'ERA "MOMINA", CUI E' ANCORA "INTESTATO" L'ARCO?