“L’Epifania tutte le feste se le porta via” ... ma lasciava i giocattoli, le caramelle, le castagne secche. Un po’ di tristezza ci assaliva quando riapriva la scuola ma quella tristezza aveva le sembianze di nuvole chiare e le giornate riprendevano il loro ritmo tra compiti e giochi per strada. I mesi “morti”della vita al Castello trascorrevano nella maniera che ci offriva il tempo senza televisore. Uno dopo l’altro giorni regalati dal sole, dal vento, dalla nebbia, dalla pioggia o dalla nevicata che, avvenimento eccezionale, metteva il sorriso anche nelle facce più arcigne. A febbraio il freddo pungente provocava i geloni alle dita delle mani e la sera in casa nostra la lotta tra sorelle stava nel decidere chi poteva mangiare sotto la cappa del grande camino perché c’era più caldo. Quando era il mio turno mi rannicchiavo sul troppoletto di legno e tenevo ben saldo il piatto della minestra sulle gambe, attenta a non bruciarmi. I compiti li finivo sempre tardi, sgridata dalla mamma e spesso mi addormentavo con la faccia sul quaderno e la matita in mano.
Accanto al nostro vicolo, in una piccola corte chiamata Sotto l’Arco abitava la famiglia Modesti formata dal padre Luca, la mamma Dina detta della Baffona , i figli Fermina e Trento sposato con Rosina di Allori. Questa famiglia allargata era molto amica della mia, tanto che insieme decisero di festeggiare il carnevale mangiando i cavatelli col sugo di maiale e poi di passare ai dolci: frittelle di riso, fiocchetti, migliacci e gli straccetti fatti con l’”archemunse”. Dina di Luca, Fermina, Rosina e la mia mamma Caterina (che tutti chiamavano Barroccia), stettero tutta la mattina a smanettare e cantare in cucina; tre zuppiere colme di cavatelli ben conditi furono riposte alfine in un canto del fuoco e altrettante quelle con i dolcetti.
Quel martedì grasso del millenovecentocinquantadue di sera e nell’ora convenuta a casa di Luca sulla tavola non mancava niente: la prima zuppiera fumante al centro, poi un fiasco di vino del Pentovaldo, uno di vinella e neanche un goccio d’acqua perché, diceva Dina “disturba l’occhi”. Tirava un fortissimo vento di Grecale e noi arrivammo puntuali con i nostri travestimenti: mamma e babbo mascherati da pistoleri, mia sorella Franca da Pierrot, Ulderiga da Fioraia ed io da Garibaldina.
Era usanza dire una frase di allegria prima di entrare in una casa che festeggiava il carnevale e il mio babbo lo fece: “TRRRRRRH!, NE PASSA MASCHERE?” esclamò spalancando la porta.
Trento possedeva un cane che in quel momento stava accucciato sotto al tavolo, l’urlo improvviso del mio babbo fece sobbalzare la povera bestia che abbaiando inarcò la schiena sollevando il desco. In un attimo successe il finimondo, tutto finì per terra: cavatelli, vettovaglie, vino e vinella. Dina di Luca con le mani giunte ripeteva come un’orazione: “oh core di mamma!” Rosina, la nuora, guardava per terra chiedendosi: “ndiò! e ora che mangiamo?” Il vento dagli infissi ululava ( o sghignazzava?) e noi tre sorelle mascherine, in disparte stavamo attonite con le labbra tinte di rosso e il neo finto sulla guancia.
Un flebile suono, che poi diventò strumento e poi una mazurka si levò sovrastando il vento, il baccano delle voci e del cane che con quattro leccate aveva fatto fuori tutti i cavatelli: Luca col sigaro in bocca si era seduto al muretto del focolare e suonava il suo organetto piegandolo, allungandolo con l’energia di chi vuol sfogare una rabbia. Suonava e teneva gli occhi chiusi piegando la testa da una parte all’altra mentre con un piede batteva il tempo; allora gli altri capirono, cessò il baccano, tutto fu messo in ordine; il cane legato all’uscio e la festa iniziò davvero con quell’omino che continuava a comprimere e allungare l’organetto ma con gesti più pacati. La mazurka imperava e Luca, sorridente piegava la testa di qua e di là, anche dopo cena, quando, dopo aver spostato il tavolo alla parete altre maschere arrivarono col viso coperto lasciando una scia di canfora e naftalina, annunciandosi: “TRRRRRRH! NE PASSA MASCHERE? “
Cavatelli: gnocchi
Archemunse: leggi alchermes
L’occhi: gli occhi
Palma della Barroccia
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