La nave è lì. Un enorme balocco inservibile riverso su un fianco.
Non c’è bisogno di guardare fuori dal finestrino. Inutile e superfluo cercarla con gli occhi.
E’ lì e basta.
Sul traghetto che ci trasporta verso l’isola, mi siedo di spalle al senso di marcia.
Per difendermi, credo.
Da quell’enormità che prima o poi, controvoglia, dovrò affrontare.
Per un istante accarezzo l’idea di scendere senza guardarmi attorno, o meglio senza guardare in quella direzione, restringendo volutamente il campo visivo e concentrando l’attenzione su qualsiasi cosa non sia quella, il bar vicino al punto d’approdo, la biglietteria marittima, il negozio di articoli subacquei o una terrazza sui tetti.
Resistere.
All’irresistibile.
Resistere.
Al fascino funesto della tragedia che calamita a frotte i curiosi.
Resistere.
Alla visione raccapricciante di una cittadina di porto presa d’assedio: un cantiere invaso da una ridda  di giornalisti, fotografi o semplici ficcanaso intrufolati nel bailamme frenetico tra i sommozzatori, i vigili del fuoco, le Unità Mobili Bonifiche Ambientali, il ronzio incessante degli elicotteri.
Resistere.
All’ineluttabilità di una conferma.
Resistere.
Questa idea, dapprima minuscola, ridicola, inconsistente, apre una breccia nel turbinio dei pensieri, poi si fa largo con tracotanza, fino a diventare uno squarcio che cancella tutto il resto, gli avvenimenti delle ultime ore, i commenti della gente, gli articoli di cronaca, i superstiti, i dispersi, i familiari, i morti per aver ubbidito a un ordine, i vivi per aver  fatto di testa loro, i bambini che non sanno bene cos’è successo e stiperanno ben bene i ricordi nella patina sdrucciolevole della memoria, le mamme, i papà, i vecchi che coronavano il sogno di una vita trasformato in incubo, i clandestini ovvero quelli così chiamati perché reclamano il diritto a un diverso destino, gli irresponsabili che sono perciò responsabili, doppiamente responsabili e infine l’unico vero testimone, l’unico attendibile, muto e disperato nel suo silenzio straziante: uno scoglio dalla testa mozzata.

So cosa significa non vedere e so quanto è difficile.
Difficile eppure semplice al tempo stesso, in fondo si tratta solo di tenere a bada la fretta, rinviare il faccia a faccia di qualche giorno o forse soltanto di poche ore, nel tentativo di contenere una curiosità che preme per dettare le sue regole e che troverà qualsiasi pretesto per affermare la sua urgenza, una riunione del comitato cittadino nei pressi del porto, un appuntamento con l’idraulico, una commissione.
Resistere.
Adesso, senza esitazioni, con la sola arma bianca di un disperato atto scaramantico, nell’impossibilità di rendere giustizia a un’insulsa faccenda.

Un atto, il solo a portata di mano, come ultima opportunità e in quanto tale, irripetibile: scendere, salire sull’autobus che già freme a motore acceso, a testa bassa, sedersi nel primo posto libero disponibile, chiudere gli occhi o guardare in alto verso la collina, verso le poche nuvole che guarniscono i contorni delle mura in direzione del Castello, dieci minuti o poco più, un’inezia in fondo, e poi il compiacimento segreto di un primato, l’orgoglio di un’azione che so, resterebbe univoca insieme alla disattesa e alla fine di un’illusione: quella di far sparire tutto, il tempo, lo spazio, l’enorme spazio blu devastato e usurpato dall’azzurro ingombrante delle viscere del relitto.
Blu sul blu, azzurro contro azzurro.
E al suo posto il nulla, solo il cielo e il mare insolitamente quieto in una giornata di fine febbraio.

Coraggio, un semplice gesto, sussurro.
A testa bassa, coraggio, ripeto a me stessa per dissimulare l’ombra di un sospetto che affiora e all’improvviso capisco.
Compro il mio riscatto, la mia vendetta contro una piccineria meschina e abnorme, con quel semplice gesto, goffo e ingannevole.
Gli occhi altrove e capisco.
Capisco che posso, ce la posso fare.
Ce la devo fare.
Ed è quello che faccio.
E’ il momento.
Scendo.

Carlotta Maura