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Antiche emozioni: "Il Carillon di un Giovedì Santo"

Antiche emozioni.
IL CARILLON DI UN GIOVEDI' SANTO.

Le stanze, nel paese circondato da alte mura, erano soltanto due. Ma ampie.
Mobili essenziali arredavano la cucina che aveva un grande camino.
Nella camera, sul letto matrimoniale, spiccava una coperta di ciniglia fiorata dal colore porporino che arricchiva e dava decoro al lindo e semplice arredamento.
Ai piedi del letto, lungo la parete, troneggiava un canterano in legno massello; il mobile odorava di cera e i lunghi cassetti accompagnavano la chiusura, ogni volta, con un tonfo sordo.
Il piano del canterano, sormontato da una lastra in marmo bianco, terminava con la specchiera incorniciata con legno intarsiato e dello stesso colore del mobile.

La casa era abitata da una giovane coppia di sposini, e la bambina, di dieci anni, amava giocare col loro figlioletto, tenerlo in braccio e ninnarlo.
Ci andava tutti i pomeriggi in quella dimora dove il sorriso non mancava mai e neanche il cucchiaio per leccare il fondo del tegamino in cui veniva cotta la crema di riso del piccolo.

La ragazzina non entrava mai nella camera, occupata spesso dal riposo del capofamiglia, operaio con faticosi turni anche notturni alla miniera di pirite situata sulla costa ovest, a pochi chilometri dal borgo.

Spesso giocava sull'uscio di quella casa aspettando alla radio il programma per ragazzi dedicato a Mastro Lesina.

"... Io son mastro Lesina e son ciabattin/faccio scarpette di tipo assai fin/ lavoro contento e mi piace cantar/e ai bimbi buoni le fiabe narrar ..."

Una voce maschile, in tono pacato, cantava quel motivetto prima di iniziare una novella ogni giorno diversa. La piccola conosceva solo gli orizzonti del mare, e i suoi occhi, a quelle storie, andavano lontano verso figure vestite d'oro e d'argento.

Scorreva il tempo in un ambiente natio benedetto dalle nuvole diafane delle albe; dai colori caldi dei tramonti e dalle corse nei tanti giochi vissuti nell'aria invernale.
Si stava avvicinando Pasqua. Il giovedì santo le campane della chiesa vennero legate a lutto e il loro suono sostituito dal regolo, un rudimentale strumento in legno; la bambina, felice di partecipare con il gruppo del paese alla chiassosa suonata nei vicoli, corse dal neonato per salutarlo, ma il piccolo, aggredito da una malattia tipica dell'infanzia, aveva la febbre alta, e la mamma, che lo teneva nella culla a dondolo situata nella grande camera, la fece entrare.

Bambino chiama bambino. I loro sguardi, paragonabili alla primordiale stilla d'acqua che fresca scaturisce dalla roccia, colgono da ciò che li circonda soltanto "il candido entusiasmo della vita" e si attraggono tra sorrisi, accenni di parole, contatti di mani.
La visione del mondo sta in un granello di sabbia innocente e irripetibile.

Prossima come età ad entrare nel mondo della realtà intesa come sviluppo di donna, ma ancora avvolta nell'innocente purezza del mondo infantile, la Nostra, aveva quello sguardo mentre fissava il piccolo assopito tra le copertine; le guance, paffutelle e rosse di febbre, la accorarono tanto che avrebbe voluto essere lei a prendere quel male.
Per la prima volta, quella bambina soffriva con lo sgomento ignoto del "perché" e tremò nel terrore di perdere per sempre l'esserino che tanto amava; nella penombra grosse lacrime le scivolarono agli angoli della bocca che inconsciamente, assorbiva con la lingua. Lacrime salate come l'acqua del mare, ma dure e penose. La madre del piccolo, pur nell'affanno della situazione, le prese la mano e la portò verso il canterano dov'era un soprammobile nero a forma di pianoforte a coda, alzò il coperchio e…una figurina vestita di bianco scattò in una giravolta a tempo di valzer.
La ragazzina guardò sorpresa prima il carillon, poi la giovane mamma dal sorriso tirato, che ondeggiando le spalle la guardava simulando il tempo di quel valzer; non capiva più niente quella bimba dagli occhi grandi, ma confusamente, mosse le magre gambe nella camera dalla ciniglia porporina e ballò respirando il vago odore acidulo di latte e di vita che arrivava dalla culla. Rideva. Era una bambina che gioiva. Saltava in quel mondo tutto suo.

Dalla finestra filtrava la luce di un lampione, ma domani, nella camera sarebbe filtrata quella del sole, perché ce n'era ancora tanto di quel sole da vivere; per assaporarlo bastava saperlo attendere e trovare riparo nei giorni bui di pioggia e di vento.

La Pasqua bussava alla porta con la primavera, stagione della vita che tra spasmi di gioia e fitte di dolore, offre il suo misterioso percorso nell'esistenza.
Altro, mia giovane isolana, non ci è dato di sapere.

Palma Silvestri.

Giglio Castello: Pasqua 2023
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