1956 - I mesi invernali, non segnati sul calendario da feste che portavano le vacanze, al Castello trascorrevano per noi bimbi, nella maniera che ci offriva il tempo senza televisore. Giorni regalati dalla bizzarria della stagione e dalle rare nevicate che venivano accolte come manna dal cielo.
I fiocchi cadevano sulle nostre urla di gioia, sui nostri salti scimmieschi. A braccia aperte, aprivo la bocca per accogliere le lievi scaglie cercandovi un sapore nuovo, il sapore dell’aria alta del cielo. I fiocchi mettevano di buon umore gli adulti e anche certi vecchi paesani, di solito scostanti e cupi.
Alcuni, reduci della Grande Guerra, si portavano ancora addosso l’orrore vissuto nelle trincee, i patimenti subiti anni e anni prima in mezzo al fango, ai cadaveri, alle bombe. Ricordi lontani, ma ormai avvinghiati alla loro anima come vernice indelebile.
Quelle figure dal volto scarno, le vedevo passare curve per i vicoli, raccolte nella loro solitudine e miseria fisica. Sul muro del municipio una lapide di marmo elencava i nomi dei figli morti in quella guerra; nomi, che almeno, venivano letti, anche distrattamente, dai passanti e, in certe occasioni, commemorati. Ma di loro, quelli tornati vivi, chi si interessava? Dov’era lo Stato che li aveva spediti senza coscienza né conoscenza nei confini più gelidi? Per porre fine alle sofferenze doveva per forza esserci soltanto la via della morte con medaglia al valore e il nome scritto su quella lapide bianca?
Uno, di questi dimenticati, si chiamava Francesco, tutti lo chiamavano col soprannome di Mendola ma lui si offendeva e ogni volta ripeteva con tono asciutto: “Mi chiamo Francesco Lombardelli.” Nei pomeriggi caldi, si sedeva al fresco sul murello fuori la porta del Paese e raccontava a chi aveva la ventura di stargli vicino, della trincea e della fame che “Tanto gli strizzava i budelli che si mangiava i bacarozzoli e di quanto era secco, galleggiava nel fango cu’ la grattella ai piedi alta du’ diti!” Parlava con sofferenza, in modo ossessivo ed irritato, quasi tra sé e sé. In fondo, per lui era molto più importante parlare che essere ascoltato e quando, stanco del monologo, se ne andava con la schiena piegata, lasciava sul lastricato l’eco del suo bastone arrabbiato.
Neanche al Castello quelli erano i tempi della comprensione e della riconoscenza. Il povero vecchio non sfuggiva all’ironia dei ragazzi né tanto meno ai crudeli giochi di derisione che essi tramavano organizzandosi in vere bande di dispettosi: a frotte, salivano sugli spalti delle mura e, urlando, lanciavano di sotto, all’esterno, dove stavano sedute le vittime, ciuffi d’erba misti a zolle, cartaccia, stracci. Abbondavano!
Il Mendola restava seduto al suo posto, imprecando.
Eppure, la volta che nevicò, il mio entusiasmo di ragazzina notò un guizzo di ilarità nei suoi occhi spenti… O fu la pena per la sua solitudine, che non potendo io alleviare, mi spinse a sorridergli per farlo sorridere?
La gente, quando nevicava, usciva di casa per correre alla Porta e piazza Gloriosa si affollava come per un comizio: squadracce di giovanotti arrivavano con pale e stagnate per dare inizio ad una battaglia senza fine; la neve così raccolta, volava da tutte le parti addensando l’aria già bianca dei fiocchi che scendevano fitti, fitti: anche le ragazze venivano prese di mira e il metro della loro seduzione lo misuravano con la quantità di palle ricevute: se tornavano a casa con i capelli fradici e sudate come in una giornata di agosto, voleva dire che erano molto belline e corteggiate.
Per noi, più piccoli, era un gran divertimento chiamare qualcuno alla finestra, tirare dentro la neve e scappare; più la persona ci gridava dietro, più schiantavamo dal ridere. Finita la battaglia, per terra non restava che poltiglia e fango, ma la bella nevicata coprendo tutta l’isola trasformava la campagna in un insolito deserto bianco. I fianchi del Poggio, della pagana, dai contorni indistinti, sfumavano nel grigio metallico del mare e del cielo che chiudeva l’orizzonte. Non un filo di vento, non una voce a sovrastare il manto incantato e tendendo l’orecchio, da sotto i Cannoni si poteva sentire la voce delle onde che lambivano la spiaggia imbiancata, laggiù, all’Arenella.
Come il suono del mare nella conchiglia.
2012, nevica, nevica, nevica! Forza, usciamo, corriamo alla Porta coi secchi, le pale e iniziamo quella battaglia felice che lascia allegria e più leggeri gli animi cresciuti, cambiati, andati in destini diversi, lontani e talvolta incrociati dal mare … e la neve.
Raro accenno nell’isola che apre ricordi mai spenti, e solo la mano che scrive, se vuole, riporta quei giorni lontani per farli brillare su pagine bianche.
Parole tenute ben strette nel cuore che iniziano sempre con: Giglio, ti amo.
Palma Silvestri della Barroccia
La nevicata al mio paese
Autore: Palma Silvestri
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