Quello che è cambiato, da quella notte tra il 13 ed il 14 di gennaio, è sotto gli occhi di tutti… O meglio, è sotto gli occhi di tutti quelli che al Giglio ci sono tornati per almeno un paio di giorni, e si sono lasciati impregnare l’anima da questa atmosfera densa di tristezza, ansia, angoscia, e quel filo di speranza legato alla fiducia verso chi ha in mano il nostro destino, che purtroppo non siamo più noi.

Eppure quella notte aveva tirato fuori da tutti il meglio e solo il meglio: ho vissuto i primi momenti come un evento più da fotografare che da temere, certo che l’imponenza di cotanta nave bastasse da sola a renderla sicura e stabile; abbiamo visto le prime scialuppe arrivare a terra, condotte da uomini giustamente sconvolti e terrorizzati, tanto che non avevano neanche preparato una cima da lanciarci per l’ormeggio; e poi in pochi minuti un’invasione di storie, razze, lingue… La mia gente, dapprima spaesata e un po’ intimorita, se all’inizio chiedeva a noi autorità quale fosse il da farsi, ha capito dopo pochi istanti che non c’era nulla da chiedere, che non c’era da aspettare alcun ordine o indirizzo, e tutti si sono mossi autonomamente, facendo quello che in maniera più spontanea gli venisse dal cuore e da secoli di esperienza nell’arte di arrangiarsi, propria di noi isolani: ed ogni mossa, ogni azione, ogni parola, benché nulla fosse stato concordato, era sempre la più giusta.

Il primo mio pensiero però, nonostante nulla avessimo da rimproverarci, è stato un vago senso di colpa, per aver goduto dello spettacolo offerto da quelle grandi navi negli anni passati, di quei passaggi sempre molto spettacolari e sempre ritenuti sicuri, senza mai dubitare del Comandante di turno; senso di colpa nei confronti di chi scendeva impaurito per primo, senso di colpa verso quelli che mi guardavano con gratitudine attraverso il buio degli scogli del Lazzaretto, solo perché illuminavo loro il sentiero da percorrere coi piedi scalzi e lacerati dagli scogli, o per quel giacchetto che era l’unico indumento che potevo donare in quei momenti. Ed il rimpianto per tutto quello che avevo a casa da dare, ma che non ho avuto il tempo materiale di prendere.

Di quella sera mi rimangono nelle orecchie le urla disperate che arrivavano a me, fermo alla piazzola dell’elisoccorso in attesa di Pegaso e del primo carico di medici da trasportare al Porto; urla che provenivano dalla nave che si inclinava sempre di più; urla che sembravano quelle che senti provenire da chi è sopra le montagne russe… solo moltiplicate per mille, e senza gioia alcuna….

Da lì in poi non c’è più stato spazio per pensieri e riflessioni, si è vissuto come in apnea un periodo lungo un’infinità di tempo e che si prospetta indefinito ancora; abbiamo assistito all’assalto e alla conquista del nostro Porto, delle nostre strade e delle nostre piazze. Massima collaborazione da parte nostra, per non smentire quanto di buono veniva ripetuto ossessivamente sul nostro buon cuore, massimo sacrificio nel vedere un territorio conquistato, militarizzato, occupato dai soccorritori; ed anche se a molti sono sembrate fin troppe le forze schierate ed i mezzi messi in campo, nulla c’è stato da eccepire finché in ballo ci sono state delle vite umane, o le ultime speranze dei familiari di chi non ha risposto all’appello.

E poi giornalisti ovunque, invadenti ed ingombranti con i loro mezzi, a tratti fin troppo maleducati o prepotenti nel nascondersi dietro il famigerato “diritto (o dovere) di cronaca”: che piacciano o meno erano pur sempre il nostro unico tramite con il dramma che avveniva a pochi metri da casa nostra, ed in tanti abbiamo ceduto alla tentazione di prenderci il famoso quarto d’ora di celebrità.

Adesso, a 18 giorni di distanza, si aggiungono sentimenti nuovi: il sentirsi umiliati, per esempio, da quanti arrivano sull’Isola con l’intento di vedere il relitto. Sia ben chiaro, io personalmente non me la sento di condannare chi, in buona fede, ha la curiosità di assistere ad uno spettacolo mai visto prima, chi cede alla tentazione di entrare dentro questa specie di effetto speciale da film; però c’è modo e modo di approcciarsi ad un relitto che nasconde e porta dentro di sé morte e disperazione, e poi fatica e sudore di sommozzatori che entrano ed assistono a scene aberranti, e compiono gesta al limite dell’umana sopportazione solo per restituire ai familiari delle vittime un corpo su cui piangere.

Ci sentiamo, credo, tutti molto stanchi, ma non abbattuti; chi in questi giorni si batte per avere più risposte possibili, in realtà nasconde dentro una gran voglia di riprendersi “casa”, di tornare protagonista del proprio destino, e di dire che vabbè, vi abbiamo lasciato fare, ma da adesso in poi dovete tornare a chiedere “permesso”, dovete tornare a convincerci che tutto verrà fatto a regola d’arte, perché quello che vogliamo noi, in fondo, non è soltanto una stagione florida che dia il pane quotidiano a tutti: quello che rivogliamo indietro è la nostra vita, la nostra serenità, il nostro incontrarsi tutti i giorni e avere il tempo di salutarsi almeno, la passeggiata sul molo e il bagno allo scalettino, l’acqua pulita e le panchine del “gazzometro”, e tutte quelle belle cose per cui abbiamo scelto di vivere qua su un’isoletta.

Tutto quello che rivogliamo indietro, in fondo, è solo il nostro Giglio.