La spiaggia delle Caldane, all’isola del Giglio, viene spesso definita, nelle riviste giornalistiche, una delle spiagge più belle d’Italia. Raggiungibile solo in barca o a piedi, è una piccola spiaggia formata da granelli di sabbia dorata, le cui discrete dimensioni concorrono alla ancora più straordinaria limpidezza del suo mare color smeraldo.

Anche la ben più grande spiaggia del Campese, sempre all’isola del Giglio, ancora agli inizi del 1900, era del tutto simile a quella delle Caldane, una enorme spiaggia d’oro, impreziosita inoltre, nella fascia più lontana dal mare, in quella zona che i naturalisti definiscono “retroduna”, da enormi distese di gigli di mare, dai fiori tanto belli che in un recente volume di botanica sulle nostre zone, intitolato “I fiori del mare”, gli autori hanno scelto questi gigli per la foto di copertina. Tali piante (il cui nome scientifico è pancratium marittimum) fioriscono da metà luglio fino a settembre e sono nutrici di una farfalla notturna detta notticola.

Come noto, la zona contigua alla spiaggia del Campese, la valle dell’Allume, ha da sempre ricoperto un certo interesse minerario fino a che, nel 1938, fu trovato un ricco filone di pirite, minerale ferroso utile per la produzione di acido solforico e quindi prezioso per la allora nascente industria chimica italiana: iniziò, da allora, un intenso sfruttamento minerario con una miniera che rimase attiva fino agli inizi degli anni ’60. L’accumulo di grandi quantità di materiale estratto nella zona ovest della spiaggia del Campese, alla radice della teleferica a mare per il carico del minerale sui piroscafi, continuato per anni, comportò un degrado che rese necessarie ma difficoltose successive pratiche di risanamento in epoca turistica. Tali difficoltà, unite alla spesso farraginosa legislazione di pianificazione territoriale delle aree costiere, spesso contraddistinta da sovrapposizione di norme giuridiche regionali e nazionali, con competenze frammentate, hanno impedito spesso, in passato, un’opportuna azione di riqualificazione dell’arenile del Campese (e del recupero dei sistemi dunali) intesa a garantire una piena e corretta fruizione turistica. A tali difficoltà di carattere burocratico-normativo andavano ovviamente unite quelle di carattere economico, a causa degli elevati costi per reperire sabbie (possibilmente autoctone) idonee al ripascimento dell’arenile.

Tutto ciò premesso, desta ovviamente perplessità e stupore dover rilevare che, a causa del naufragio della nave Concordia e ai conseguenti lavori di trivellamento del fondo marino granitico, non si sia approfittato per utilizzare le centinaia di tonnellate di sabbia granitica prodotta e che queste siano state invece trasportate –onerosamente-  in cave del continente. Premesso che tale operazione di riutilizzo in loco sarebbe dovuta concertarsi con uno specifico protocollo d’intesa fra Amministrazione Provinciale e Comune per disciplinare le fasi degli interventi, è comunque facilmente intuibile da chiunque la facilitazione legata all’origine locale del materiale sabbioso: materiale proveniente da una zona di mare prospiciente una cava dismessa, di ottimo granito, materiale da potersi utilizzare per un ripascimento immediato, anche se parziale, magari al Campese; materiale a cui le prime mareggiate avrebbero, in modo naturale, restituito il giusto “taglio” granulometrico (vedi recente genesi spiaggetta del Demo’s) e a cui gli agenti atmosferici, ossidando le componenti dei granelli granitici, avrebbero di nuovo conferito il primitivo aspetto dorato.

Una tale occasione, legata a un evento assolutamente eccezionale come il naufragio della Concordia non doveva essere lasciata passare invano. Chi autorizzerebbe, in condizioni normali, interventi ambientali come quelli resi necessari dalla rimozione del relitto della Concordia? Chi si sarebbe tirato indietro in questo clima di super-esposizione mediatica di fronte a una proposta che, a fronte di una tragedia, consentiva per lo meno di realizzare, in positivo, un impegnativo intervento di riqualificazione ambientale e di riassetto idrogeologico di una zona di alto pregio del Parco Naturale dell’Arcipelago Toscano?

A parere del sottoscritto, la responsabilità politica di tale vicenda si inserisce nel solito contesto di incapacità gestionale dell’attuale organo di governo dell’isola che, forte di un consenso popolare (elettorale) di oltre il 60%, continua  a interpretare argomenti come “il recupero dei sistemi dunali”, il “pancratium marittimum” o la “notticola” come espressioni di un frasario ambientalista da sempre ottusamente osteggiato: non capendo invece la diretta proporzionalità esistente fra la tutela dei suddetti beni naturalistici e il denaro presente nei cassetti degli operatori turistici gigliesi, da qualche tempo  vuoti in maniera abbastanza preoccupante (a parte quelli momentaneamente beneficiati dalla presenza del cantiere).

Dr. Armando Schiaffino - ex Sindaco Isola del Giglio