Trivelle, dimissioni Ministro Guidi
Legambiente: “Ancora più urgente andare a votare il 17 aprile per dare un segnale sulla politica energetica che vogliamo” Ecco le inchieste nel settore dell’estrazione di idrocarburi in Italia
“Andare a votare il 17 aprile significa dare un segnale sulla politica energetica che vogliamo. Questo referendum ha una valenza che va ben oltre il quesito sulla durata delle concessioni di ricerca ed estrazione di petrolio e gas entro le 12 miglia: è una presa di posizione sul futuro e il presente che costruiamo per le persone e i territori. Una presa di posizione - politica economica e morale - che lo scandalo lucano e le dimissioni del ministro Guidi rendono ancora più urgente”. Così Rossella Muroni, presidente di Legambiente sulle dimissioni del ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi, legate all’inchiesta sul centro olii di Viggiano e sui pozzi di Tempa Rossa in Basilicata.
“Quando si parla di petrolio - prosegue Muroni - la posta economica in gioco è altissima: secondo l’ultimo studio del Fondo Monetario Internazionale nel 2015 i sussidi alle fonti fossili sono stati pari a 5300 miliardi di dollari (10 milioni di dollari al minuto), tanto quanto il 6,5% del PIL mondiale e più della spesa sanitaria totale di tutti i governi del mondo”.
Per l’associazione contro la corruzione Transparency, il settore delle estrazioni di petrolio e gas è in assoluto tra i più a rischio corruzione, con un tasso del 25% di corruzione percepita. Secondo l’ong Global Witness (che riprende dati Ocse di dicembre 2014) petrolio, gas e risorse minerarie costituiscono tuttora i settori a maggior rischio corruzione del mondo. In un campione di 427 casi di corruzione registrati tra il 1999 e la fine del 2014, quelli riguardanti i settori citati rappresenterebbero da soli il 19% del totale.
L’Italia ha visto consumarsi sul suo territorio diverse inchieste nel settore dell’estrazione di idrocarburi. Per fare qualche esempio, si ricorda che il recentissimo caso del Centro Oli di Viggiano, di proprietà dell’Eni, già nello scorso mese di dicembre aveva portato la Dda di Potenza a emettere ben 37 avvisi di garanzia per un presunto traffico organizzato di rifiuti disastro ambientale. L’inchiesta sul Centro Oli era venuta alla luce a febbraio 2014 con un primo “blitz” dell’Antimafia. Da allora l’ipotesi di reato indicata resta quella del «traffico di rifiuti» ma i filoni d’indagine si sono moltiplicati. Sul tavolo degli inquirenti c’è il tema della corretta qualificazione dei reflui, che sono il prodotto della componente acquosa separata dal greggio destinato alla raffineria, più tutte le sostanze utilizzate per estrarlo e prepararlo all’immissione nell’oleodotto in direzione Taranto.
C’è poi l’annosa questione della piattaforma Vega A (va avanti dal 1989), al largo delle coste siciliane di Pozzallo, di proprietà della Edison, dove si è aperto un procedimento giudiziario (oggi a serio rischio di prescrizione) sulla miscele di sostanze altamente inquinanti che sarebbero stata immessa nel pozzo Vega 6, causando danni ambientali e contaminazioni chimiche nelle acque e nel sottosuolo circostanti. Si parla nel dettaglio di “metalli tossici, idrocarburi policiclici aromatici, composti organici aromatici e MTBE”. Gli inquirenti ipotizzano “gravi e reiterati attentati alla salubrità dell’ambiente e dell’ecosistema marino attuando, per pura finalità di contenimento dei costi e quindi di redditività aziendale, modalità criminali di smaltimento dei rifiuti e dei rifiuti pericolosi”. Secondo il dossier curato da Antonio Condorelli (pubblicato sul mensile S) “in 19 anni l’impianto di proprietà della Edison ha prodotto circa cinquecentomila metri cubi di acque contaminate da rifiuti anche pericolosi, che sono state smaltite poi con modalità assolutamente non conformi alle disposizioni normative”. L’Ispra ha valutato il costo di smaltimento dell’intero quantitativo di rifiuti al centro dell’inchiesta, tenendo conto che “la natura particolare delle matrici ambientali danneggiate” non potrà essere riportata “alle condizioni originali”. Il danno quindi dovrà essere risarcito per “equivalente patrimoniale”. Secondo il calcolo del settimanale questo ammonterebbe a circa 70 milioni di euro.
Nel 2008 uno scossone giudiziario ha coinvolto il gruppo Total, che ha visto agli arresti l’allora amministratore delegato di Total Italia, Lionel Levha, nell'ambito di un'inchiesta della procura di Potenza per tangenti sugli appalti per l'estrazione del petrolio in Basilicata, dove è stato coinvolto anche un parlamentare nazionale. In quello stesso procedimento sono finiti in carcere anche l’allora responsabile Total del progetto “Tempa Rossa”, insieme al responsabile dell’ufficio di rappresentanza lucana e a un suo collaboratore, e il sindaco di Gorgoglione (Ma). I reati contestati, diversi da persona a persona, sono di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione e alla turbativa d'asta, corruzione e concussione. Il giudice ha inoltre disposto varie perquisizioni e il sequestro di numerose società.
Anche lo stoccaggio dei rifiuti prodotti dalle attività estrattive è finito nel mirino degli inquirenti diverse volte. L’ultima delle quali risale allo scorso mese di dicembre, quando un’indagine della Dda di Napoli ha portato al sequestro preventivo di beni per 239,7 milioni di euro nei confronti della società Kuwait Petroleum Italia. Un ammontare pari, secondo l’accusa della procura partenopea, al profitto ottenuto mediante lo smaltimento illecito di rifiuti di lavorazione pericolosi. Otto le persone indagate ai quali è stato contestato lo stoccaggio di ingenti volumi di rifiuti pericolosi (42mila metri cubi di acque oleose) nei serbatoi installati nel deposito fiscale Kuwait di Napoli, e il loro successivo smaltimento illecito al fine di non sostenere le spese per il corretto trattamento delle sostanze. Accuse comunque respinte dall’azienda in una nota ufficiale.
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